VI Domenica di Pasqua

Famiglia, scuola d’amore

di fra Vincenzo Ippolito

È la famiglia il luogo nel quale si impara ad amare come ha fatto Gesù, sapendo che, a Nazaret, Egli per primo ha appreso da Maria e Giuseppe l’arte di amare e di donare l’amore senza misura.

Vangelo (Gv 15, 9-17)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.

Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».


Commento

Siamo alle ultime tappe del cammino pasquale. In questo tempo di grazia, abbiamo sperimentato nella Parola, nella Pane e nei fratelli, la presenza del Signore Risorto ed ora i nostri occhi, purificati dal collirio del suo amore, si preparano a vederlo ascendere alla destra del Padre (Ascensione, 17 maggio), mediatore del dono dello Spirito (Pentecoste, 24 maggio) che ci rende testimoni della sua Pasqua tra gli uomini, annunciatore, fino agli estremi confini della terra, della conversione e del perdono dei peccati (cf. Lc 24,48).

Proprio perché in dirittura di arrivo, possiamo paragonare la liturgia odierna agli ultimi colpi di pennello che un’artista dà alla sua opera prima di poterla considerare finita. Difatti, il brano del Vangelo secondo Giovanni (15,9-17), pane della nostra mensa domenicale, conduce i discepoli alla perfezione dell’amore, al comandamento della carità che è il pieno compimento della legge (cf. Rm 13,10). La pericope, senza nessun taglio, si riallaccia a quella  della scorsa settimana (Gv 15,1-8) e rappresenta il migliore commento della simbologia vite-vignaiolo-tralci utilizzata da Gesù.

Come già in precedenza (cf. Gv 15,1), anche questa volta il Maestro inizia dalla relazione  che Egli vive con il Padre per introdurre poi i suoi discepoli alla circolarità dell’amore, nel vortice della divina carità. Gesù è l’amato dal Padre e vive dell’amore del Padre suo. Ma l’amare in Dio non porta a nessuna esclusione, poiché l’amore vero, per sua intima natura, è comunicazione di bene  – bonum est diffusivum sui, il bene si diffonde, dicevano i Medievali – e Gesù si comunica all’uomo come amore senza misura, donandosi con la stessa modalità che scandisce le relazioni trinitarie: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (v. 9). È il «come» che fa la differenza tra noi e Gesù. Egli ha imparato dal Padre la modalità dell’amore.  Il Padre è stato per lui educatore nell’amore che conduce al dono e ciò che ha imparato nell’abbraccio eterno con il Padre, il Verbo, fatto carne, lo vive nel rapporto con gli uomini. È questa l’opera mirabile dell’Incarnazione: Dio facendosi uomo, trasferisce nella dimensione umana ciò che è proprio di Dio – ovvero amare ed amare senza misura – e non solo Lui si rende uno di noi, ma nel suo cuore umano, assunto nel grembo della Vergine, batte un amore che per natura, per essenza, oltre che intensità è divino, eterno, infinito.

Come si può rimanere insensibili dinanzi all’amore del Cuore di Gesù? Come non vivere il trasporto dell’amore, il contagio dell’affetto, la comunicazione della gioia che nasce dall’essere amati? Gesù ama noi con la stessa intensità d’amore con cui è amato dal Padre, una intensità che non dipende dalla nostra capacità di accoglierglielo e riconoscerlo, ma dalla divinità di Gesù Cristo, dalla sua immensa tenerezza. L’amore che Gesù nutre per noi non è proporzionata alla nostra rettitudine o al nostro merito, ma all’onnipotenza della sua sconfinata misericordia. Dio non può non amare così perché questa è la sua intima essenza, l’amore, e non può amare diversamente da come ama, perché, in quanto Dio, non può amare, se non come Dio. Da questo comprendiamo la capacità sua di perdonare oltre misura noi uomini perché Egli non potrebbe fare diversamente essendo amore sconfinato, donazione incalcolabile, bontà infinita, tenerezza eterna. L’amore di Dio per l’uomo supera per essenza oltre che per intensità tutto ciò che è umano e nessun peccato, nessun umano rifiuto potrà mai, per quanto grande, esaurire l’oceano della divina misericordia.

È questo il nerbo del Vangelo, l’essenza del cristianesimo, la forza della fede nel Risorto.

In tale circolarità di amore i discepoli devono consapevolmente entrare. E Gesù – lo si noti bene – non si rivolge al singolo, ma alla sua comunità, alla mia famiglia, al mio gruppo. La relazione amorosa che Cristo è venuto a rivelare non riguarda “Lui e me” soltanto, ma “Lui e noi”, il mio rapporto con Gesù passa attraverso l’altro – attraverso la mia sposa ed il mio sposo, il mio fratello e la mia sorella … – come la relazione amorosa di Gesù con il Padre passa attraverso noi uomini.

Non si può amare ed essere amati senza legare relazioni stabili, senza essere addomesticati – diceva la volpe al Piccolo Principe – senza rimanere nel cuore dell’altro che mi ama. Amare significa rimanere con l’altro, rimanere nell’altro. Difatti, siamo invitati a rimanere nell’amore di Cristo, ad abitare il suo Cuore così come il Verbo abita il seno del Padre (cf. Gv 1,18). Il significato del nostro rimanere in Lui e nel suo amore ci è rivelato dal suo rimanere nel Padre e nel suo amore. L’osservanza dei comandamenti è la condizione del nostro rimanere in Cristo, come l’osservare dei comandamenti del Padre è condizione del rimanere di Gesù nel mistero del Padre e del suo amore.

L’evangelista disegna così la strada della sequela Christi. Essa, diversamente dai Vangeli  Sinottici (Matteo, Marco e Luca), non è modellata dall’itinerario dei Dodici, ma da Cristo stesso. È Gesù, infatti, il maestro da seguire, ma è Lui, prima ancora, il discepolo del Padre, in tutto obbediente alla sua volontà e al suo amore. Chi segue Gesù deve seguirlo come Lui segue il Padre, con la stessa radicalità e totalità, con il suo Cuore indiviso, con la ferma volontà di offrirsi perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Si segue Gesù, come Lui segue il Padre, non esiste altro cammino di sequela. Solo dalla modalità dell’amore vissuta da Gesù nasce la gioia che nessuno potrà toglierci.

L’osservanza dei comandamenti in Gesù, nella sua relazione con il Padre, e per noi, nella relazione con Cristo, è una esigenza dell’amore. L’amore vero, fedele a se stesso, vive nella ricerca del bene che l’amato, mai spinto dall’egoismo,  propone  e richiede all’amante. L’amato poi sa che l’amante non domanderebbe nulla se non fosse per il suo bene e si abbandona, nell’obbedienza, a quanto gli è chiesto perché sa che nell’altro è il desiderio dell’autentico bene a muovere l’azione.

L’osservanza dei comandamenti di Gesù rappresenta per il discepolo non solo la condizione per rimanere nel suo amore, ma, prima ancora, il segno che l’amore è compreso e ricambiato come ricerca del vero bene. Nella relazione d’amore, obbedisco all’amore dell’altro – e questa diviene una esigenza interna all’amore che prende i caratteri di una legge – solo nella consapevolezza che lui ricerca e vuole il mio vero bene più di quanto io stesso possa ricercarlo e volerlo. Io supero il mio limite e la mia debolezza, obbedendo all’altro, fidandomi di lui e della sua parola che è per me possibilità di vita. Questo vive Gesù, si fida del Padre e si abbandona al suo amore perché sa che mai gli chiederebbe qualcosa contraria al suo bene. Ecco dove nasce la gioia, dall’obbedire all’altro che ricerca il mio bene, che mi stana dalle mie piccole e grette sicurezze, aprendomi alla responsabilità del dono ricevuto, alla maturità del dono da offrire, alla sfida di uguagliare Gesù nell’accogliere l’amore, nel vivere d’amore, nel donare l’amore fino al punto da amare più l’altro ed il suo bene che la mia stessa vita.

Dall’amore sperimentato all’amore donato, dalla modalità dell’amore accolto – come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi –  alla modalità dell’amore vissuto con gli altri – amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi – sono questi i passaggi che Gesù compie e fa compiere, nella sera del tradimento, in un crescendo che i discepoli capiranno solo quando lo Spirito ricorderà loro le sue parole, aprendo le menti alla perfetta comprensione del mistero della sua Pasqua. L’impegno della Chiesa, comunità-corpo del Signore risorto, sta nel vivere l’amore come Lui lo ha vissuto, la cui espressione massima è il dono della vita. I discepoli devono puntare alto nell’amore, non possono accontentarsi di mezze misure, devono giungere al dono totale, come il Maestro, per amore. Ed è questo l’amore che libera noi dalle tenebre del peccato e della morte e, da schiavi, ci rende amici. L’amore vero libera l’amato con il dono di se stesso e lo abilita a vivere nell’amicizia, ovvero nella condivisione dei misteri del Padre, della sua volontà, del suo desiderio che tutti siano figli suoi e tra loro fratelli. Il Vangelo è parola che libera, è amore esigente che salva. La potenza dello Spirito di Cristo è amore che sbaraglia le differenze – Paolo dirà che non c’è più né Giudeo né Greco (Gal 3,28) – che abbatte i muri di divisione – “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo abbattendo il muro di separazione che era framezzo” (Ef 2,14) – che non mortifica e lascia l’altro nel disprezzo, ma lo solleva dalla polvere, restituendogli la dignità di figlio amato, come fa il Padre misericordioso che riveste il prodigo dell’abito più bello, lo calza dopo che i suoi piedi hanno conosciuto il fango, gli mette l’anello al dito della dignità filiale perduta per il peccato, ma restituita dal suo amore che non ha misura  (cf. Lc 15).

Quante volte nelle nostre famiglie l’amore lega e schiavizza? Quante volte, proprio in nome dell’amore – paventato come tale a parola, ma che in realtà spesso è sentimento puerile e di bassa lega –  si vive nel ricatto e nella paura, incapaci di dire la verità perché l’altro non la vuol sentire? La vocazione delle nostre comunità domestiche è, invece, vivere la sfida della reciprocità dell’amore secondo la modalità espressa da Gesù nel dono della vita. È la famiglia il luogo nel quale si impara ad amare come ha fatto Gesù, sapendo che, a Nazaret, Egli per primo ha appreso da Maria e Giuseppe l’arte di amare e di donare l’amore senza misura.

Gli sposi cristiani devono sapere di essere stati scelti da Dio per essere parte della vita dell’altro e di essere stati scelti  insieme quali pietre miliari nella costruzione della grande famiglia della Chiesa. Quale formazione per i nostri sposi nell’educazione dell’amore vero? Come le nostre famiglie guardano a Gesù nel riproporre tra gli uomini la sua modalità d’amore? Come i figli apprendono dai gesti di noi adulti che amare significa desiderare ad ogni costo il bene dell’altro? Come i pastori e gli educatori nella fede aiutano le famiglie e guidano i fidanzati a vivere la reciprocità – elemento che si affianca alla complementarietà tra uomo e donna secondo Genesi 1-2 – perché nell’amore si sperimenti l’amicizia e l’uguaglianza? Tra uomo e donna la differenza conduce alla complementarietà e l’uguaglianza in dignità alla reciprocità dell’amore. Per l’una come per l’altra Gesù rappresenta il maestro ineguagliabile.

Maria, Regina della Famiglia  e Madre della Chiesa, sostenga il nostro seguire il suo Figlio Gesù e liberi in noi e tra noi le potenzialità inespresse dell’amore per vivere la bellezza della donazione che ci rende immagine e somiglianza di Dio, Lui amore infinito, tenerezza immensa, perdono sconfinato, ricerca coraggiosa dell’autentico bene e della gioia vera.




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1 risposta su “Famiglia, scuola d’amore”

A volte si pensa di fare il bene dell’altro con alcune scelte e atteggiamenti ma in realtà si fa il proprio bene. Perchè la verità è che l’amore costa sacrificio e spesso preferiamo scappare piuttosto che rimanere accanto all’altro. Lo lasciamo da solo proprio nel momento in cui ha più bisogno di noi. La verità caro padre è che l’uomo fondamentalmente è un grande egoista!mi è piaciuto questo passaggio che lei ha fatto: “non mortifica e lascia l’altro nel disprezzo, ma lo solleva dalla polvere, restituendogli la dignità di figlio amato”…Ecco forse questo significa amare una persona..non mortificarla, non lasciarla nel disprezzo e nell’indifferenza…

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