IV Domenica di Pasqua

La bellezza del dono

di fra Vincenzo Ippolito

Non esiste bellezza se non nel dono. Se la bellezza del tuo amore non la manifesti per timore che l’altro non la comprenda, se ami, ma la tua identità di “amante” la tieni per te, se ti doni, ma il tuo corpo si consegna all’altro con riserve, metti la lampada dell’amore sotto il moggio, non arrivi a collocarla sopra il lucerniere perché faccia luce a coloro che sono nella casa.

Dal Vangelo di Giovanni (10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Commento

Siamo a Gerusalemme, la città santa, nel tempio maestoso voluto da Davide, costruito da Salomone e più volte distrutto e riedificato come Casa di preghiera per tutti i popoli. Gesù ha donato la vista al cieco nato (cf. Gv 9) e questo ha provocato il risentimenti dei farisei, volutamente incapaci di accoglierlo come la luce del mondo (cf. Gv 8,12). Dinanzi alla loro grettezza, il Maestro non impugna le armi della disputa, né afferra l’arco dei ragionamenti violenti, ma – strano per noi che ci lasciamo facilmente prendere dall’ira quando non veniamo accolti! –  preferisce la dolcezza di una parola che rinfranca l’anima e guarisce il cuore: “Io sono il buon pastore”. Gesù non ha paura di rivelare la sua identità, di mostrare il suo desiderio di amare il Padre e, nel vincolo amoroso con Lui, ogni uomo. Gesù vuole essere il pastore di quei farisei che non lo accolgono, dei sadducei che lo rifiutano, dei capi dei Giudei che di lì a poco decreteranno la sua morte, condannandolo ad un infame destino. Più è rifiutato e più si strugge nella ricercare vie alternative per accedere nell’interiorità di coloro che, pur presentandosi come nemici, sono cercati come pecore disperse da ricondurre all’ovile.

 

Gesù è il pastore bello e buono, la sua bellezza è il riflesso del suo cuore misericordioso, il suo volto splende della luce del Padre che lo rincuora e lo spinge a trasformare in vita anche le strade nelle quali la sua creatura sperimenta l’odio e la morte. È forte la parola di Gesù per noi che abbiamo scavato un abisso incolmabile tra il bello ed il bene, tra ciò che appare e quanto è nascosto nel cuore. Bello è Gesù, la sua vita è un vaso che trabocca d’amore; bello è il suo volto, luminoso sul Tabor più del sole; bello lo sguardo suo che ti avvolge d’amore senza toccarti ed appropriarsi di te; bella la sua voce, la voce del Pastore, riconoscibile tra le mille dei mercenari che scappano dinanzi al pericolo; belle le sue labbra, dalle quali, coma da sorgente, scorre la parola di vita che diletta l’anima; belle le sue mani che comunicano la vita e scacciano ogni morte; bello il suo corpo che, passato attraverso la morte, effonde sul capo della Chiesa sua sposa, il profumo di nardo della sua vita risorta.

 

Non esiste bellezza se non nel dono. La bellezza – sembra dire Gesù – il desiderio che l’altro abbia tutto di te, devi effonderlo nel dono, devi offrirlo nella consegna, devi affidarlo nella fiducia. Se la bellezza del tuo amore non la manifesti per timore che l’altro non la comprenda, se ami, ma la tua identità di “amante” la tieni per te, se ti doni, ma il tuo corpo si consegna all’altro con riserve, metti la lampada dell’amore sotto il moggio, non arrivi a collocarla sopra il lucerniere perché faccia luce a coloro che sono nella casa. La vita è bella – l’omonimo film di Benigni lo faceva comprendere bene! – se la vivi per l’altro, se la metti in gioco per salvare chi ami, se la offri perché, comunicata alla persona che ami , divenga la vita che lui vive grazie al dono che gli hai fatto di te stesso.

A Gesù-pastore importano le pecore, gli interessano – I care, mi interessa era il motto di don Milani che scandiva la sua scuola di Barbiana – per lui io sono il dono del Padre da custodire anche a prezzo di vedersi le mani trafitte, pur di non lasciarmi cadere nel nulla. Il bel pastore, Gesù si interessa di me, della mia vita, delle vicissitudini della mia famiglia, delle crisi dei miei rapporti, delle difficoltà del mio lavoro. Egli non ci lascia mai soli, con lui non manchiamo di nulla, è lui la roccia su cui costruiamo, il baluardo in cui confidiamo, alle sue mani consegniamo il futuro dei nostri figli senza paura. La Parola mi sprona ad un serio esame di coscienza:  io sono pastore di coloro che il Padre mi ha affidato? Come mi interesso della mia sposa/o? Come nutriamo e custodiamo i nostri figli? Sono un mercenario con un abito da pastore oppure nel pericolo, nell’incomprensione, nell’incapacità di passare all’altra riva, di camminare sul mare del pregiudizio proprio ed altrui scappo per salvare me solo?la mia famiglia è aperta alla carità, si interessa dei problemi degli altri? Siamo chiusi nel nostro egoismo o lasciamo che lo Spirito ci conduca lì dove il Padre richiede la nostra testimonianza?

Quale profondità contengono questi otto versetti che la Liturgia oggi ci dona! Ogni parola è passata alla fiamma incandescente del Roveto ardente del cuore di Dio. Essere buon pastore – è questo il secondo tratto che appare dopo il binomio bellezza-dono dei vv. 11-13 – significa conoscere ed essere conosciuto nel dono di sè, quasi a dire che la bellezza/bontà del proprio cuore si manifesta nella conoscenza dell’altro e nell’essere per lui un libro aperto. Bellezza-conoscenza nell’amore scandisce la relazione tra pastore e pecore e questa è così profonda – secondo quanto Gesù ci confida – perché modellata sul rapporto divino, eterno, amoroso, infinito che lega il Figlio al Padre. Gesù mi conosce ed ama come conosce ed ama il Padre ed io dovrei conoscerlo ed amarlo – meglio usare il condizionale – come il Padre conosce ed ama lui, suo Figlio. È questa la perfezione dell’amore del discepolo/pecora nella relazione con il Maestro/Pastore: avere una conoscenza così profonda che uguaglia – è il tendere alla perfezione, senza la pretesa di volerla realizzare – il rapporto tra Dio ed il suo Figlio. Gesù è legato a me come è legato al Padre e nel sacramento nuziale ci ha legato a sé per essere una sola cosa come lui è in unità con il Padre. A Dio, Gesù è unito per la natura divina, a me si unisce per la sua libera scelta di amarmi e ricercare il mio bene.

Dove giunge l’amore di Dio per me! La conoscenza di me genera nel Pastore il dono di sè, mentre tra noi il conoscersi porta alle chiusure perché l’altrui debolezza fa paura, il suo limite mette in fuga, le cadute e le pecche spesso ci inorridiscono. Più entri, invece, con l’amore nella vita della persona che ti è accanto, come Gesù, e più la debolezza è accolta, l’errore perdonato, il limite abbracciato con gioia. La conoscenza-amore conduce Gesù al dono della vita, perché un amore che non si dona non è vero, una conoscenza dell’altro che si lascia divorare dalla paura non è animato dallo Spirito-amore del Risorto. “Nessuno ha un amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici” (Gv 15,13). Ma il dono è necessitato dall’amore stesso, è l’amore che si veste di dono quando incontra l’altro, è l’amore che prende la via dell’offerta pur se non richiesta perché gli occhi dell’amore vedono ciò che l’amato non guarda e giungono  lì dove questi non riesca ad arrivare con le sole sue forze.

Il comandamento che il bel Pastore ha ricevuto dal Padre è lo stesso che il Maestro affiderà ai suoi discepoli nell’ultima cena (cf. Gv 13,14-15; 15,12): amare è servire, amare è donare, lo stesso imperativo che Gesù ha vissuto nei trentatré anni della sua vita terrena: amare è dimenticare i torti, amare è perdonare i fratelli, amare è sedere all’ultimo posto, amare è non aver paura del vero volto dell’altro. Il Pastore grande delle pecore conceda alle nostre famiglie la volontà nell’amare come Lui ed il coraggio di guardare sempre a lui per essere gregge del suo pascolo e passare attraverso le piaghe risorte del suo Figlio Gesù per trovare, sempre insieme – marito e moglie, genitori e figli, famiglie e comunità cristiane – la vita in abbondanza che il suo Spirito effonde in noi senza riserve.




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