testimonianza
Mi chiamerò Giovanni
La canonizzazione di Giovanni XXIII
di Mons. Giuseppe Giudice Vescovo della Diocesi di Nocera-Sarno.
Al cardinale Tisserant, decano del Sacro Collegio, che gli ha appena chiesto, in quel lontano pomeriggio del 28 ottobre 1958, se accetta l’elezione canonica, Roncalli risponde: Ascoltando la tua voce, tremo ed ho paura. Ciò che io so della mia miseria e pochezza basta alla mia confusione. Ma vedendo nei voti dei miei fratelli, eminentissimi cardinali di Santa Romana Chiesa, il segno della volontà divina, io accetto l’elezione. Parole che sono la logica conseguenza del suo motto: Oboedientia et pax, obbedienza e pace, e come lui dirà, un po’ la mia storia e la mia vita. Certo, la storia sorprendente di un uomo, Angelo Giuseppe Roncalli, preso dai campi e destinato alla Cattedra di Pietro e alla santità.
Accettare è come la trama e la sintesi della sua vita. Dalla povertà di Sotto il Monte, a Bergamo, Roma, in Bulgaria, Costantinopoli, Parigi, Venezia e poi ancora Roma, e sempre con la semplicità di un prete, con la profondità dello storico, con l’arguzia del pastore che apre piste nuove e finestre mai più chiuse. Accetta, in quel pomeriggio di ottobrata romana, e sceglie un nome, che è già una sorpresa: Il nome di Giovanni mi è caro – disse – perché è il nome di mio padre. Mi è ancora più caro perché è il nome del patrono dell’umile chiesa parrocchiale in cui sono stato battezzato. È il nome… che nella lunghissima serie dei romani pontefici gode di un primato numerico. Ci sono in realtà 22 pontefici eletti regolarmente con il nome di Giovanni. Quasi tutti ebbero un breve pontificato. Anche nei momenti più solenni, il Papa Buono non rinuncia alla sua arguzia e bonomia.
Arguto e sorridente sempre, anche nell’ora della croce, e della croce un giorno dirà: Noi vescovi la portiamo sul petto, ma talora ne viviamo lo strazio nel nostro cuore di pastori. Ad un giovane interprete dall’inglese, dopo un suo discorso, sussurra: Sa, ieri ha tradotto meravigliosamente bene. Dopo aver letto il suo riassunto, mi fu chiaro ciò che volevo dire. Mons. Loris Capovilla, suo segretario particolare, dirà di lui: “Le affrettate definizioni di ieri, elogistiche o riduttive, cedono il posto a valutazioni più ponderate, ed inducono a riconoscere in lui bontà, non debolezza; semplicità, non semplicismo; misericordia, non bonarietà; fiducia, non dabbenaggine; disponibilità interiore, non credulità; candore, non ingenuità; spontaneità, non impulsività; abbandono alla Provvidenza e non fatalismo; coraggio intrepido e non temerarietà; speranza incrollabile e non illusione. Era schietto, non arrendevole; generoso, non accomodante; fermo e rigido nei principi, longanime e magnanimo nella comprensione delle nostre debolezze”.
Il presidente Edouard Herriot, salutandolo alla partenza da Parigi, ebbe a dire di lui: “Monsignore, voi non vi siete accontentato di risiedere a Parigi e di rappresentarvi degnamente il sovrano pontefice; avete messo il vostro cuore accanto al cuore dei francesi. Non ce ne dimenticheremo”. Ecco il suo segreto, sempre e ovunque: mettere il suo cuore accanto al cuore dell’altro, di ogni uomo di buona volontà, al di là delle fedi e delle condizioni sociali e politiche. Il suo cuore accanto alla gente, ai malati, ai carcerati, alle parrocchie delle borgate romane, a Loreto, Assisi; un cuore accanto, ecco la sua diplomazia. Lo aveva imparato in famiglia, dal suo parroco don Francesco Rebuzzini, dalla semplicità di Sotto il Monte e dal vescovo di cui era stato segretario, Mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi, la stella polare del mio sacerdozio, come lo definì più di una volta, colui che gli aveva insegnato che la prudenza è agire e agire bene.
Mettere il suo cuore accanto al cuore dell’altro fu la grande intuizione del Concilio, per aggiornare la Chiesa e farla tornare accanto alla gente. Sempre accettando tutto nell’obbedienza e nell’umiltà, come quando, entrando patriarca a Venezia il 15 marzo 1953, dice: Vorrei riuscire a qualcosa di bene. La poca stima che ho di me stesso, fortifica la mia fiducia nell’aiuto del Signore.
A che serve un Concilio, dopo il Vaticano I che ha riconosciuto l’infallibilità del Papa? Quando qualcuno pose al Papa questa domanda, questi si avvicinò ad una finestra del suo studio e la spalancò: Contiamo che il Concilio faccia entrare qui dentro un po’ d’aria fresca, rispose. Per lui questo bastava, ma è stato notato con finezza che ci sono finestre le quali, una volta aperte, non si possono chiudere più. E da quella finestra, la sera dell’11 ottobre 1962, invitò a guardare la luna, ricordò a tutti che siamo figli e pellegrini in cammino verso il cielo e tanti bambini furono raggiunti dalla carezza del papa, la sua carezza, con la quale molti sono cresciuti nell’amore alla Chiesa, Mater et Magistra. E quella stessa finestra rimase illuminata nei giorni della sua agonia, con la grande piazza gremita di fedeli, molti in ginocchio a pregare, preghiera come un eco della Pacem in terris. Radunare, raccogliere, rimettere insieme i figli e i fratelli, ricomporre la famiglia umana intorno alla Madre, era stato sempre il suo anelito, il suo sogno, il fine della sua pastorale, come ebbe a dire a Lourdes il 25 marzo 1958: Lourdes è diventata la grande tenda, sotto la quale i rappresentanti di tutte le nazioni si riuniscono per visitare Maria, loro Madre, intrattenersi con essa e ottenere grazie e conforto. Scriverà ancora Mons. Capovilla, quasi a suggello del suo ministero: “Alla fine, nei giorni di maggio-giugno 1963, richiamando attorno al suo letto innumerevoli figli ed amici, riassunse e visse la grande lezione della vita e della morte, tramutando l’invisibile mestizia di quell’ora in un rito pontificale: una grande messa con la sua omelia, la preghiera universale, l’offerta dei doni, l’immolazione generosa e contenta. Lui agonizzante, una voce anonima dalle lontane Americhe commentò: Papa Giovanni, dopo averci insegnato a vivere, ora ci mostri come si deve morire”. Quella sera, la luce di quella stanza è ancora accesa e, raccontano i presenti, volse gli occhi al Crocifisso, che era sulla parete davanti al letto, perché potesse vederlo alla prima luce del mattino e all’ultima della sera. Quell’ultima sera, 3 giugno, il cardinale Luigi Traglia, suo pro-vicario per la città di Roma, stava celebrando la messa all’aperto per le migliaia di persone che erano convenute in Piazza San Pietro. Il vento primaverile era così mite, che le candele sull’altare guizzavano appena, e il sussurro delle preghiere sembrava rimanere librato nell’aria quando la messa fu terminata. Poco prima delle venti, il cardinale Traglia pronunciò le parole di commiato tradizionale: Ite, missa est – Andate, la messa è finita. Nello stesso istante, lassù nella camera da letto debolmente illuminata, dove da giorni attendeva Sorella Morte, Papa Giovanni emise il suo ultimo respiro.
Mi chiamerò Giovanni… e nel primo incontro da Papa con i fedeli, portato sulla sedia gestatoria, ricordò quando il padre da piccolo lo sollevava sulle spalle alle feste di paese per fargli vedere bene e lontano. Quel gesto fu come una profezia, perché nella sua vita, Angelo Giuseppe Roncalli, il Papa Buono, da sacerdote, da vescovo, da Papa ha visto bene e lontano. Così, nel giorno del dies natalis, 3 giugno 1963, Solennità di Pentecoste, come un antico patriarca sazio di opere e di giorni, sollevato ancora sulle spalle dai suoi figli, fu presentato al Padre, dal quale ascoltò, in obbedienza e pace e accettando come sempre, le parole della canonizzazione che, insieme a Giovanni Paolo II, risentirà il prossimo 27 aprile: Vieni, servo buono e fedele, entra nella gioia del tuo Signore! (Mt 25,21).
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