Quel dialogo Interrotto fra te e me

di Silvio Longobardi

L’aborto molto spesso nasconde una grande paura: perdere la propria libertà, considerare l’altro un peso, un ostacolo alla propria realizzazione. Ripercorriamo attraverso le parole di un famoso libro di Oriana Fallaci, il dramma di molte donne che, di fronte ad una vita che sentono crescere dentro di sé, si interrogano sul senso del nascere, fanno i conti con la paura del futuro e molto spesso scelgono la strada del rifiuto.

Correva l’anno 1975. L’anno in cui per la prima volta votano i diciottenni, l’anno della grande avanzata del Partito Comunista: le amministrazioni di Roma, Milano, Torino, Napoli, Genova, Venezia si tingono di rosso.
Un terremoto politico senza precedenti. Come sempre avviene in questi casi, tanti guardano con favore il nuovo corso. “Gli italiani – disse una volta Ennio Flaiano – accorrono sempre in soccorso del vincitore”. Fu in quell’anno che la Corte Costituzionale aprì una prima crepa nella diga che fino ad allora aveva difeso il valore assoluto della vita umana. La Suprema Corte, infatti, pur riconoscendo che “la tutela del concepito” ha “fondamento costituzionale”, afferma che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. La sentenza, pubblicata il 18 febbraio, era molto misurata e tuttavia dava fiato alla battaglia culturale di quei gruppi politici che spingevano l’approvazione di una legge favorevole all’aborto. Quella sentenza apriva un nuovo capitolo. In quello stesso anno Oriana Fallaci (1929-2006) pubblicò Lettera a un bambino mai nato. Racconta la leggenda che il direttore de L’Europeo le chiese di fare un’inchiesta sull’aborto (clandestino ovviamente) per documentare la drammatica condizione delle donne, costrette a ricorrere a persone senza scrupoli pur di liberarsi del bambino che portavano in grembo. Le inchieste erano il pane quotidiano di Oriana, i suoi libri erano tutti best sellers. Tra l’altro proprio a Firenze, sua città natale, all’inizio del ’75, era stata scoperta una clinica che praticava aborti, la famosa CISA (Centro
Italiano Sterilizzazione e Aborto) del dottor Canciani. I radicali se ne attribuirono la paternità morale e iniziarono una campagna di disobbedienza civile. Di materiale ce n’era. E senza dubbio, c’erano anche tanti drammi da raccontare. Quella volta, però, la giornalista toscana scelse un altro registro comunicativo, più che scoprire fatti inediti, preferì interrogare se stessa. Venne fuori un dialogo drammatico tra la madre e il figlio, in cui Oriana racconta la storia di una tormentata gravidanza conclusa con un aborto spontaneo. Quel piccolo libro è tutt’oggi uno dei testi più conosciuti e ristampati della Fallaci. “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore”. Comincia così il racconto. La forma dialogica fa del concepito una persona, un altro con il quale possiamo parlare e condividere dubbi ed emozioni. Non è il prodotto del concepimento ma un figlio con il quale fin dall’inizio intessere una relazione interpersonale. La Fallaci descrive sentimenti e paure di ogni mamma, e rivela così che la maternità è una storia che comincia quando la donna prende coscienza di essere incinta. La donna vive il dramma della solitudine, sperimenta lo sguardo accusatore di quanti la giudicano irresponsabile, ascolta i consigli di un’amica che la esorta ad abortire. Quella vita comincia ad apparire come un peso, vi è una drammatica confessione che riesce a fare solo al suo bambino: “La sola idea di ucciderti, oggi, mi uccide e tuttavia mi capita di considerarla”. Comincia a sentire la paura di
mettere al mondo un figlio che dovrà soffrire. Le domande si accavallano: “Allora dimmi, tu che sai tutto: quando incomincia la vita? Dimmi, ti supplico: è davvero incominciata la tua? Da quanto? Dal momento in cui la stilla di luce che chiamiamo spermio bucò e scisse la cellula? Dal momento in cui ti sbocciò un cuore e prese a pompar sangue? Dal momento in cui ti fiorì il cervello, un midollo spinale, e ti avviasti ad assumere
una forma umana? Oppure quel momento deve ancora venire e sei solo un motore in fabbricazione?”. All’inizio della gravidanza tante domande erano rimbalzate dentro di lei. E tra queste, la paura che la volontà di farlo nascere poteva non essere condivisa dalla sua creatura. “Mi sono sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? […] La vita è una tale fatica, bambino. È una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi. […] La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo […] se ciò sia stato un bene o un male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che
sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla […] Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere” (pp. 7-9). La difficile gravidanza
si conclude con un aborto spontaneo. Non si tratta però di un evento imprevedibile. Il medico le ha ordinato un riposo assoluto per custodire quella fragile vita che porta in grembo. Lei inizialmente accoglie le indicazioni ma gradualmente comincia a sentire che la sua vita rimane soffocata. Fino al punto da vedere la vita del figlio come un ostacolo per la propria realizzazione: “Ma cos’è questa vita per cui tu, che esisti non ancora fatto, conti più di me che esisto già fatta? Cos’è questo rispetto per te che toglie rispetto a me? Cos’è
questo tuo diritto ad esistere che non tiene conto del mio diritto ad esistere? Non c’è umanità in te … Umanità! Ma sei un essere umano, tu? Bastano davvero una bollicina d’uovo e uno spermio di cinque micron a fare un essere umano? […] L’unica cosa che ci unisce, mio caro, è un cordone ombelicale. E non siamo una coppia. Siamo un persecutore e un perseguitato. Tu al posto del persecutore e io al posto del perseguitato … Ti insinuasti in me come un ladro, e mi rapinasti il ventre, il sangue, il respiro. Ma vorresti rapinarmi l’esistenza intera. Non te lo permetterò”. Decide allora di lasciare l’ospedale dove è ricoverata. Il
medico tenta in ogni modo di convincerla a restare, richiama la sua responsabilità di madre, descrive lo sviluppo del bambino, la accusa di compiere un omicidio premeditato. Ma niente riesce a farla cambiare idea: “L’ho ascoltato senza battere ciglio. Ho firmato un foglio con cui egli declinava ogni responsabilità per la tua vita e la mia, ed io me la assumevo al suo posto. L’ho guardato uscire dalla camera in preda ad un furore che lo rendeva paonazzo. E, quasi in quel momento, tu ti sei mosso. Hai fatto ciò che avevo aspettato, agognato, per mesi. Ti sei allungato, forse hai sbadigliato, e mi hai tirato un piccolo colpo. Un piccolo calcio. Il tuo primo calcio … come quello che tirai a mia madre per dirmi di non buttarmi via. Le mie gambe sono diventate di marmo. E per qualche secondo sono rimasta con il fiato mozzo, le tempie che mi pulsavano. Ho sentito anche un bruciore alla gola, una lacrima che mi accecava. Poi la lacrima è ruzzolata giù, è caduta sul lenzuolo facendo: paf! Ma sono scesa ugualmente dal letto. Ho preparato ugualmente la valigia. Domani si parte, ho detto. In aereo”. Quel “piccolo calcio” è il segno imprevedibile della vita, è l’annuncio di una presenza, quasi l’invito a fare alleanza. Ma la madre è troppo stanca, troppo preoccupata
di essere se stessa per rendersi conto che la vita di quel bambino vale ogni sacrificio. Non se la sente di rinunciare ai suoi progetti. Una storia emblematica, quella che la Fallaci mette in scena. Un libro che cerca di uscire dai vicoli stretti di un’ideologia che esalta l’aborto come una conquista civile e mette a nudo la verità che spesso si cela dietro l’aborto: la paura di perdere la propria libertà. È questo, in fondo, il dramma che accompagna da sempre la vicenda umana: amare se stessi fino a calpestare l’altro; amare l’altro, fi no a dimenticare se stessi.




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