Da quel momento una continua fuga
di Ida Giangrande
Un aborto è sempre un’esperienza dolorosa, un evento che lascia ferite per tutta la vita. In questo spazio daremo voce attraverso la penna di Ida Giangrande, alle tante donne che hanno vissuto questo dramma. Lo facciamo in punta di piedi, con rispetto ma anche con la speranza che la vita venga accolta sempre e comunque.
Anna è una donna giovane, bella. Mentre mi parla, continua a sorridermi come se volesse tentare di nascondere la tensione nel tono della sua voce malferma. “Ero una libertina!” confessa con un velo dimalinconia negli occhi. “Prima di incontrare lui, prima di innamorarmi, ero una ragazza allegra, spensierata.
Frequentavo un gruppo di ragazzi. Ci vedevamo il sabato, la Domenica. Tra loro c’era un ragazzo giovane, di quattro anni più grande di me, ed io avevo solo sedici anni. Mi ci vollero pochi giorni per innamorarmi di lui. Mi buttai a capofitto in quella storia, investendo tutte le mie energie e donando tutta me stessa, compreso il mio corpo. Erano trascorsi pochi mesi dalla festa del mio diciottesimo compleanno, quando improvvisamente la mestruazione mi saltò, ed io con l’aiuto di mia cugina, feci il test di gravidanza: era positivo, ero incinta. Sulle prime, né io né lui pensammo a liberarcene. Volevamo trovare il modo giusto per dirlo alle nostre famiglie. Mia madre fu la prima a saperlo, e pianse tutto il giorno. A sera fu la volta di mio padre, la sua risposta fu un ceffone che mi fece girare la testa oltre che lo stomaco e subito dopo una dichiarazione d’intenti che risuonò alle mie orecchie come il rintocco a morte delle campane. Mia madre e mia cugina presero appuntamento con un medico, se così si può definire. Il medico mi fece un’ecografia ed io ascoltai il battito del suo cuore, ricordo che sembrava il galoppo impazzito di un cavallo in corsa. Un nodo mi strinse la gola, ma non ebbi la forza per raccogliere il coraggio e urlare che non volevo. Ancora una volta tacqui. Mi somministrarono l’anestesia, senza alcun accertamento. Ero ancora vigile, quando mi sentì scivolare sullo schienale della sedia. Dischiusi gli occhi e riuscì a scorgere nel torpore del dormiveglia, le mie gambe prive di vita che venivano sistemate l’una sul braccio destro e l’altra su quello sinistro della sedia da parto. Tutto quello che accadde dopo fu l’oblio per quel bambino e per la mia vita. Guardavo il paesaggio fuori dalla finestra della mia stanzetta, e mi sembrava tutto fermo, sospeso in una dimensione a metà strada tra il cielo e la terra. Mio padre, che si era tenuto sempre due passi indietro, mi rivolgeva la parola in modo telegrafico. Mi aiutò a trovare un lavoro, ed io so che mi voleva bene, ancora e nonostante tutto, ma non riusciva a perdonarmi quello che era successo, e non si chiese se io invece avessi perdonato a me stessa quello che avevo permesso. I mesi scivolarono via veloci e vuoti, tra me e il mio ragazzo non c’era più dialogo, non riuscivamo più a divertirci, a stare con i nostri amici, a vivere la vita come qualsiasi altro giovane. Se i nostri occhi si incontravano, quando eravamo in pubblico, ricordavamo l’uno all’altro il sapore amaro della morte. Non lo amavo, non lo amavo più, ma volevo restare con lui. Mi dicevo che se fossimo rimasti insieme, se avessimo ricominciato mettendo insieme un passo dopo l’altro, forse saremmo riusciti a riscattare nostro figlio e le nostre anime dall’inferno, ma non sapevo davvero ciò che stavo pensando. La situazione divenne talmente complicata che lui decise di abbandonarmi. Gli anni della mia giovinezza sono stati una continua fuga in cerca di qualcosa. Prima in montagna da alcuni amici, poi a Milano dove ho conosciuto mio marito. Ogni volta mi dicevo che tutto sarebbe stato diverso, ma quando tornavo a casa anche il più leggero zefiro di primavera serviva a ricordarmi che avevo ucciso mio figlio”.
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