Siamo tutti Cesaroni?

di Giovanna Abbagnara

La famiglia è il luogo dove avviene l’incontro della persona con le tecnologie, questo significa che essa svolge un ruolo di responsabilità fondamentale e non inferiore a quello che hanno gli operatori  della comunicazione. Bisogna allora ricollocare i media all’interno della casa, dare regole, imparare e sviluppare senso critico perché i media e in particolare la televisione veicolano messaggi molto spesso dannosi. Nel percorso di educazione ai media che attraverso questa rivista vogliamo affrontare, abbiamo incontrato Luca Borgomeo, presidente dell’A.I.A.R.T. Con lui abbiamo parlato di fiction televisive.

Quale modello di famiglia emerge dalle ultime fiction televisive che sono state prodotte in Italia? Più che quale modello direi quale tipo, perché la parola modello evoca un fatto positivo appunto da imitare. Io direi quale tipo di famiglia. Nel senso che, e lo dico preoccupato, emerge un tipo di famiglia “allargata” molto più di quanto sia nella realtà e non come è nella realtà. È vero che non tutte le famiglie che si dividono e si separano lo fanno in modo brusco ma dare un’immagine della famiglia allargata dove gli ex-coniugi vanno d’amore e d’accordo e vivono tutti una normalità serenissima, dove è naturale che il padre abbia un’amica o viceversa, mi sembra un messaggio negativo. Soprattutto perché fa apparire normale quello che normale non è.  

La serie tv de “I Cesaroni” ha chiuso la sua stagione con una audience da record, 8 milioni di spettatori all’ultima puntata. Lei come giustifica questo successo?
È stata sicuramente una trasmissione di successo! Ma ho dubbi sui dati. Nel senso che non ritengo assolutamente che siano corrispondenti alla realtà, sono a mio giudizio gonfiati. Questo chiama in causa l’inattendibilità dell’auditel, che è un servizio privato e impermeabile alla conoscenza da parte del pubblico; nel senso che il pubblico potere (commissione di vigilanza, governo, ministero) non è in condizione di controllare questi dati. Fatta questa premessa, credo che il successo sia dovuto indubbiamente alla simpatia dei personaggi e alla notorietà dei protagonisti. Ma soprattutto perché questi personaggi sono abbastanza vicini a quelle che sono le aspirazioni e i modelli dei giovani.

Proprio i giovani sono tra i telespettatori più accaniti di questa fiction.
Anche se cominciano ad essere stufi , perché queste fiction si ripetono e non solo queste de “I Cesaroni”. All’inizio hanno un ascolto maggiore poi degenerano, scadono anche in qualità e questo determina probabilmente anche un distacco da parte dei giovani, superata la fase della novità. Motivo per cui gli stessi reality hanno cali di ascolti sapientemente nascosti dalle rilevazioni. In Inghilterra e in altri Paesi, che hanno una cultura televisiva più sviluppata della nostra, quando si avvisa questo calo, incominciano ad essere eliminati dai palinsesti. Quello che si dovrebbe iniziare a fare anche in Italia.  

A differenza del cinema, in cui molto spesso il protagonista è un eroe lontano dalla vita quotidiana, la fiction permette al telespettatore di identificarsi con i personaggi rappresentati proprio perché vengono visti molto vicini al loro vissuto. Quali rischi si corrono con questo atteggiamento?
Al cinema si vede il film e poi si va via. Invece ogni settimana su canale 5 tornano le solite facce, le solite persone e si consolida quel legame che poi porta ad identificarsi, acquisendo anche linguaggio, moralità, atteggiamenti e purtroppo a volte anche valori dei protagonisti. Non diventano i padroni del nostro immaginario però certamente lo condizionano.

In che modo, secondo lei, la famiglia può arginare tutto questo?
Fondamentale è innanzitutto che in famiglia si consolidi la consapevolezza che la televisione si cambia. Se un genitore quotidianamente dice ad un figlio “la televisione ti trasforma, ti cambia, ti può cambiare in meglio ma soprattutto ti può cambiare in peggio”. Facendo crescere la consapevolezza si attiva un processo di critica fondamentale. Il secondo aspetto riguarda il pericolo reale che la televisione soppianti la famiglia come agenzia educativa, dopo aver soppiantato anche la scuola. Per cui  i giovani oggi hanno dalla televisione, ma dai media nel complesso, una massa di informazioni e di messaggi che rendono residuale quasi il ruolo della famiglia e della scuola specialmente se (grazie a Dio non è sempre così) queste, non sono all’altezza del ruolo e del dovere che hanno di educare i figli.

Grande successo hanno anche le fiction a sfondo religioso come Don Matteo. Che giudizio ha su quest’ultime?
Quando questi programmi, quelli religiosi in particolare, colgono aspetti, valori e significati importanti, finiscono col coinvolgere positivamente lo spettatore. Io penso ad esempio a Padre Pio con Castellitto, penso a Papa Giovanni XXIII, cioè a quei programmi che rispondono ad un’esigenza di ascolto “sereno” da parte della stragrande maggioranza dei telespettatori. Credo che c’è anche un modo di reagire al positivo a questo dilagare di insulti, volgarità, strilli, voci, risse. La gente ha bisogno ogni tanto di riflettere e di assistere ad un programma che comunichi qualcosa.

Che ne pensa delle recenti dichiarazioni di Lino Banfi, che rinnega Un medico in famiglia, sostenendo di essere per la famiglia unica?
Devo dire che sono un po’ tardive! Probabilmente sulle riflessioni che fa Banfi pesano i cali di ascolto, perché Un medico in famiglia ha rappresentato anch’esso situazioni a limite della famiglia quindi non certo edificanti. Ma credo sia andata degenerando la trasmissione, perdendo nel tempo l’impatto. Non sono un esperto di programmi ma posso dire che c’è una grande differenza tra come erano costruiti i primi episodi e come si sono evolute le serie successive. Dunque questo pure avrà avuto effetto sulla sua partecipazione e spiega alcune delle sue recenti dichiarazioni.

Lei ha sostenuto che la famiglia, come agenzia educativa, deve sviluppare senso critico anche nei confronti e nel modo in cui i figli utilizzano la televisione e i vari strumenti. Ma secondo lei quali sono i parametri per definire il livello di qualità della televisione oggi?
Sono parametri difficili da definire. Certamente non è un prodotto di qualità quello che induce all’odio razziale, quello che induce alla pornografi a, che induce alla violenza. La qualità è insita nel tipo di messaggio che lo spettacolo manda; quindi siamo anche molto attenti, senz’altro alla qualità professionale del programma, ma anche al significato e al messaggio che il programma invia.

Secondo lei ci sono segnali positivi nella televisione italiana o peggioriamo sempre di più?
C’è un peggioramento sicuramente. Tuttavia, siccome bisogna individuare gli aspetti positivi anche nelle situazioni di difficoltà, (siamo ottimisti per natura) noi traiamo motivi di fiducia nel fatto che l’evoluzione tecnologica rapidissima, straordinariamente accelerata, sta scombussolando il quadro del sistema televisivo e non solo in Italia. Ad esempio la tv non è come era una volta l’unico strumento. Per certe fasce, ad esempio quelle minorili e quelle giovanili, è di gran lunga inferiore al web. C’è una interconnessione tra gli strumenti audiovisivi che toglie la centralità alla televisione. E poiché non è una buona televisione allora questa è una buona notizia.




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