Pregando si arriva lontano

di Luca Memoli

Creare ponti con chiese sorelle in altre parti del mondo, vivere la fede con uno slancio missionario: questo il programma pastorale di Mons. Franco Alfano, prima da parroco oggi da vescovo. Un progetto che ha portato la sua comunità a fare scelte qualificanti, perché se manca una parrocchia e per anni si celebra in un prefabbricato, non è mai mancata invece la chiesa fatta di persone disposta a partire senza paura.

Prima di essere ordinato vescovo della Diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi, da parroco ha guidato la sua comunità a scoprire l’importanza della missione. Cosa l’ha spinta in questa direzione?

Il nostro cammino si è sviluppato nel tempo, un po’ alla volta, e man mano che la famiglia parrocchiale cresceva attorno alla parola di Dio ed alla celebrazione dei Sacramenti, specialmente dell’Eucarestia, ci aprivamo alle esigenze dei fratelli, soprattutto dei poveri che erano vicino a noi. Ma questo non bastava come risposta al Signore! Abbiamo, quindi,  sentito il bisogno di allargare gli orizzonti, ma allora non sapevamo ancora come. Una parrocchia cresce nella misura in cui vive la missione ad ampio raggio. Diverse occasioni e proposte, che venivano soprattutto dall’Azione Cattolica Diocesana, ci hanno fatto prendere sul serio la possibilità di fare un’esperienza particolare con una comunità del cosiddetto “terzo mondo”, particolarmente bisognosa di aiuto. È nato quello che abbiamo chiamato “Progetto Ecuador”,  un progetto che va avanti da più di 15 anni.

È bello sottolineare che tutto è nato dalla preghiera. Si può affermare che la preghiera ha spinto la comunità ad andare oltre i confini della parrocchia?

Sì, l’abbiamo scoperto un po’ alla volta, man mano che cercavamo di dare corpo alla comunità, la quale doveva anche  affrontare  problemi immediati, emergenti, come la costruzione di una Chiesa; ma questo ci ha fatto capire che non ci dovevamo chiudere nei nostri problemi se volevamo essere una famiglia attenta a quello che il Signore ci chiedeva.

Oltre allo scambio di esperienze la missione ha prodotto altri frutti?

Noi abbiamo preso contatti con la missione salesiana e ne abbiamo seguito il progetto, cioè quello dell’adozione a distanza. Più che limitarci, però, alla sola adozione dei singoli bambini, abbiamo adottato il progetto stesso di questa missione specifica, e cioè l’aiuto scolastico, sanitario, sostegno alle famiglie, progetti lavorativi, e tante altre cose.

La comunità parrocchiale che ha intrapreso viaggi missionari?

Sì, anche se pochi  in verità, avremmo desiderato che fossero di più le persone, ma per diversi motivi ciò non è stato possibile. Abbiamo avuto alcune esperienze estive, che mi auguro possano intensificarsi. Sono state preparate e vissute intensamente. Sentivamo il bisogno non solo di dare, ma di incontrare qualcuno. E questo è stato un arricchimento sia per me come parroco, sia per i giovani che sono stati lì, in America Latina, con me!

Ogni volta questi incontri sono state vissuti coinvolgendo tutta la comunità, non solo nella preparazione ma soprattutto al ritorno, raccontando le esperienze, creando dei ponti ad esempio tra i ragazzi delle scuole elementari e i loro coetanei.

Secondo lei questa vocazione missionaria, è solo di alcune parrocchie oppure tutte le comunità cristiane sono chiamate alla missione?

Non è uno slogan che vorrei dire, ma sono convinto per l’esperienza vissuta, che non è possibile essere Chiesa senza aprirsi in un modo, o nell’altro, allo scambio missionario! Il Concilio ci ricorda che quella che è la grande tradizione della Chiesa: “O si è missionari per natura o lo si è prendendosi a cuore le sorti dell’umanità intera”.

Questa penso sia la sfida del nuovo millennio per tutta la Chiesa ed anche per le singole comunità parrocchiali, che sono chiamate veramente ad aprirsi, a dialogare, con esperienze non solo a livello culturale, sociale ma anche religioso! Questo ci arricchirà tantissimo, però dobbiamo vincere la paura che alcune volte ci prende o quelle piccole certezze che rendono il nostro mondo un po’ chiuso!

La parrocchia rischia di concentrarsi su di sé per diventare una comunità che offre tanti servizi e tante possibilità compreso quello di aiutare chi è in difficoltà  ma la parrocchia deve rendersi conto che fa parte di una realtà più grande che deve vivere a vari livelli! Sul territorio, nella diocesi, in contatto con altre Chiese, nel mondo. Questa è la via perché possa, non dico rinascere perché non è morta, ma ringiovanire, ed essere veramente una comunità significativa per tutti, anche per quelli che non fanno un’esperienza diretta di fede.

Tutto questo lo ha fatto da parroco, ora da vescovo, pastore di una comunità molto più grande, come propone l’esperienza missionaria?

Il Vescovo ha un contatto diretto, non con una piccola comunità ma con tante comunità, piccole o grandi, questo mi fa sentire ancora più pastore di prima, non solo per l’autorità ma proprio per il rapporto diretto che cerco di vivere innanzitutto e soprattutto nelle singole comunità parrocchiali, e poi con tutti gli altri impegni che in ogni caso sono legati a persone e ad esperienze e a gruppi.

Questo mi consente, certamente nel rispetto delle realtà e della loro storia, di ricevere ma anche di trasmettere questo messaggio e questa dimensione forte, questo desiderio di crescere insieme, facendo nostre le attese e le preoccupazioni di altre Chiese. Ovviamente con i tempi che sono necessari perché questo maturi. Innanzitutto con i miei fratelli presbiteri, i parroci in modo particolare, e poi con tanti laici che incontro, e tante persone nelle comunità, che sentono il bisogno, non sanno tante volte come, si tratterà pian piano di dare forma a quello che lo Spirito ha messo nei cuori.




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