La famiglia, per vincere la precarietà

di Giovanna Abbagnara

La tendopoli è posta nei pressi del casello autostradale, nell’ampio parcheggio della Finmek: 500 posti, bagni chimici, docce e camion con frigo. È gestita dalla Protezione civile lucana. Il responsabile ci accoglie con cordialità, vuole custodire la privacy dei residenti – li chiama così gli sfollati e neppure s’accorge che l’appellativo suona come una beffa – ma sa anche che la comunicazione mediatica è importante per dare voce a quanti hanno perso tutto. Il campo è provvisto di un magazzino, dove si può trovare di tutto. C’è perfino una tenda, attrezzata dall’associazione Save the Children, dove i bambini possono giocare. “Non è così dappertutto”, avverte il responsabile. La capienza e la vicinanza all’autostrada hanno fatto di questo luogo un immediato riferimento per tutti quelli che sono venuti a portare cibo e ogni genere di necessità. Nelle altre tendopoli c’è maggiore precarietà. Andando in giro, non facciamo fatica a rendercene conto.

Mentre attraversiamo il campo, penso all’appello di mons. Giuseppe Molinari, vescovo di questa martoriata città: “Non si può vivere per sempre sotto le tende”. Vedere per credere. La casa non è soltanto un tetto ma il luogo degli affetti e dell’intimità. La tenda è una risposta emergenziale, misura l’estrema precarietà della situazione. Un dramma come questo, che mette a soqquadro l’esistenza, richiede uno spazio dialogico, per dare risonanza alle domande. La tenda non è certo a misura di famiglia e non favorisce quella relazione che sta al cuore dell’esperienza coniugale. La tenda ridisegna il nucleo residente in base al numero, deve contenere almeno otto persone, le famiglie sono costrette ad aggregarsi.

Chi ha scelto di andare negli alberghi della costa, non sta meglio. Certo, ha una stanza tutta per sé. Ma ben presto si accorge che non basta. Una famiglia è per natura laboriosa, la spesa e il pranzo sono la liturgia quotidiana. Qui invece non c’è nulla da fare, al mattino, quando ci si ritrova nella hall, non c’è nemmeno voglia di condividere. E poi c’è l’eccessiva lontananza dalla casa, nessuno vuole fuggire dal luogo in cui per anni hanno costruito la loro vita. Lì c’è tutta la loro fatica, sotto quelle macerie sono sepolti anche i loro sogni.

La famiglia è come spogliata, priva di tutto. Tutti dicono che bisogna guardare in avanti ed è quello che il cuore desidera. Ma, almeno per ora, è difficile progettare il futuro. Vi sono ancora troppe ferite da rimarginare. E vi sono tante paure che soffocano la speranza. C’è bisogno di tutto. Mai come oggi si avverte prepotente il bisogno di famiglia, cioè la necessità di ricostruire la storia attorno a quell’evidenza che accompagna il cammino di ogni civiltà, attorno a quegli affetti che danno stabilità ai desideri del cuore. Ridiamo priorità alla famiglia per vincere la precarietà e ricostruire il tessuto morale di un popolo, premessa indispensabile per ogni autentica e duratura ricostruzione. E diamo al più presto una casa a chi ha perso tutto perché in essa la famiglia si ritrova e prende coscienza di essere una piccola comunità dove s’impara a condividere e a progettare nuovamente il futuro. Solo così possiamo sconfiggere quella sottile tentazione, che nessun sismografo può registrare, di gettare la spugna.

E ritrovare la speranza, che è il vero motore di ogni civiltà.




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