Jérome Lejeune

di Gianni Mussini

Docente di Genetica in importanti università, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, premio Kennedy per la scoperta della causa cromosomica della sindrome di Down… Che non abbia avuto il Nobel, torna a disonore di quei giurati così distratti. Insomma, Jérôme Lejeune (scomparso nel 1994) era uno scienziato famoso. Eppure, a onta di ogni umano prestigio, sentiva la medicina come servizio al prossimo e come cooperazione al gran gioco inaugurato da Dio con la creazione.

Proprio come in un gioco semplificava in parabole i concetti più ardui, magari per condirli con un umorismo dal timbro elegantemente francese. A un convegno gli chiesero che senso abbiano certe vite stravolte dal dolore: perché non l’eutanasia? Lejeune rispose: «Che cosa si fa se all’ippodromo cade un cavallo e si rompono la gamba sia l’animale che il fantino? La soluzione veterinaria è di sopprimere l’animale per non farlo soffrire; ma nessun medico penserebbe alla stessa soluzione per il fantino… Lo stesso criterio vale sempre, prima e dopo la nascita: il medico deve curare solo e sempre». E in un’altra occasione: «È proverbiale il costume degli Spartani di eliminare alla nascita i disabili. Lo scopo era di arrivare a una razza superiore. Invece così non fu e resta il dubbio che Sparta sia scomparsa dalla storia perché, eliminando i più deboli fisicamente, finirono per prevalere gli stupidi o se perché, essendo stupidi, decisero di eliminare i più deboli».

Fece clamore la sua testimonianza a un tribunale del Tennessee, dove venne chiamato a pronunciarsi dal Governo americano. Due coniugi, prima di divorziare, avevano avviato le pratiche per una fecondazione in vitro, e c’erano così alcuni embrioni congelati di cui  non si sapeva che fare: il padre ne voleva la distruzione, la madre si dichiarò disposta a cedere i suoi figli anche a un’altra donna. Lejeune se la cavò con intelligente candore: «Ma questa vicenda è già stata risolta una volta: lo fece re Salomone nella vicenda delle due madri…».

Lo ricordo al Convegno nazionale dei CAV (Salerno, 1988). Parlava in francese, per brevi frasi via via tradotte dal nostro Silvio Ghielmi. Si creava così una suggestiva sospensione che permetteva al pubblico di accompagnare l’oratore con mormorii di approvazione che mi fecero pensare per analogia al futbol bailado dei brasiliani, pure ritmato dai cori dei supporter.

Ne vennero fuori espressioni intense come pagine evangeliche. Contro ogni pelosa neutralità della scienza, ci disse che essa è oggi «l’albero del bene e del male»: a noi la responsabilità di «cogliere i buoni frutti e di non proporre agli altri i cattivi». Quando alla fine citò proprio il Vangelo («Una sola cosa giudica tutto e dice semplicemente: “Ciò che avrete fatto al più piccolo tra i vostri fratelli l’avrete fatto a me”»), non ci sembrò di avvertire nessuna differenza tra le sue parole e quelle del santo libro.




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