Un’identità da difendere
di Giovanna Abbagnara
Le case famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, sparse in tutto il mondo, sono luci di carità accese lungo i sentieri della storia. Oggi sono presenti in 25 paesi del mondo, 253 in Italia e 45 all’estero. Si respira un’aria di buono, di cose semplici, di vita vissuta. Nella fatica ma anche nella certezza di rispondere ad una chiamata, a quel grido dei poveri che risuona continuamente e invita all’amore, perché come amava ripetere don Benzi: “I poveri sono i veri protagonisti della storia”. Abbiamo incontrato Giovanni Paolo Ramonda, succeduto alla presidenza dell’Associazione dopo la morte di don Benzi. Insieme a sua moglie Tiziana vive in una casa famiglia in provincia di Cuneo.
Dottore Ramonda, quando l’affido non è possibile, le comunità di tipo familiare subentrano e danno una risposta. Ma le case famiglia a conduzione familiare hanno una loro specificità, quale?
La specificità è che sono gestite da una figura paterna e materna, normalmente membri dell’associazione Papa Giovanni XXIII, coniugate, oppure una figura maschile o una femminile, come ad esempio due consacrati, che svolgono proprio funzioni genitoriali sostitutive a quei bambini ma anche agli adulti che necessitano di riferimenti genitoriali. Queste persone scelgono di condividere la propria vita in modo stabile, continuativo, definitivo, oblativo con le persone provenienti dalle situazioni di disagio più diverse.
Per vivere in una casa di questo tipo si necessita di qualche attitudine particolare?
Per i responsabili si necessita di un cammino anche vocazionale ed educativo pedagogico, ovviamente ci vogliono delle attitudini. La prima è quella di essere un buon papà e una buona mamma, diventando genitori di chi non ha più nessuno ed è stato abbandonato.
È necessario anche fare una formazione permanente all’interno della struttura comunitaria. Per quanto riguarda, invece le persone accolte il criterio è lo stato di bisogno temporaneo o permanente che fa si che al posto di andare in una struttura, oggi c’è l’opportunità, che anche la legge prevede, di affidare queste persone alle comunità di tipo familiare.
Dal 2006 come procede secondo lei il processo di deistituzionalizzazione. È a vantaggio dei minori?
Sulla carta gli istituti sono stati chiusi. In pratica noi riteniamo che c’è stata una conversione di questi istituti in mini comunità, mini appartamenti, comunità alloggio che però non hanno caratteristiche di tipo familiare. Bisogna fare una bella distinzione fra le comunità che hanno una effettiva caratterizzazione genitoriale e familiare, quelle citate precedentemente, dove ci sono le figure paterne e materne che vivono a tempo pieno come un papà e una mamma. Le altre invece sono comunità educative che hanno la loro validità, ma sono di altra natura. Quindi è importante che di fronte al bisogno della persona, di fronte alla ricchezza dei servizi sociali, la risposta non venga uniformata o mascherata, ma chiamata con il proprio nome.
Secondo lei lo Stato, la politica in Italia favorisce questo tipo di accoglienza?
In Italia abbiamo una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda l’affidamento familiare e l’adozione. Però nella prassi delle amministrazioni a volte si incontrano delle resistenze che nascono anche da un pregiudizio culturale. Oggi lo Stato, l’assistenza sociale si sta organizzando attraverso delle strutture omogenee, per minori, per anziani, per i portatori di handicap. La casa famiglia è invece una famiglia allargata dove ci sono tutti dal più piccolo al più grande. Questo fa fatica ad essere concepito perché va al di fuori degli schemi giuridici e istituzionali. Tuttavia, attraverso il dialogo, stiamo cercando di ottenere che venga riconosciuta l’identità della casa famiglia, la sua originalità, come tutte le altre realtà che vengono riconosciute.
Lei ha fatto il servizio civile presso l’ Associazione e poi da giovanissimo ha scelto di rimanere, dichiarando “Ho scelto di essere quasi subito padre nella casa famiglia”. Qual è la sua esperienza con sua moglie Tiziana?
L’anno prossimo saranno 30 anni che abbiamo aperto la prima casa famiglia in Piemonte. È una esperienza che abbiamo sentito fin da giovani, proprio quella di donarsi completamente al Signore attraverso i più piccoli, quelli più indifesi e i più poveri. E dopo 30 anni siamo convinti della validità di questo modello pedagogico, di questa terapia della realtà, di questa pedagogia della condivisione che permette di far emergere anche in persone con gravi patologie, minori con gravi handicap fisici, psichici, sensoriali, le loro capacità. Queste creature non sono un peso ma diventano una risorsa, diventano protagonisti della vita della famiglia ma anche della vita sociale della vita ecclesiale proprio come diceva don Benzi: “I poveri sono i veri protagonisti della storia.”
Qual è il rapporto tra gli accolti e i suoi figli naturali?
È un rapporto tra fratelli, tra persone che devono conquistarsi i propri spazi, una propria identità nella relazione sia con i genitori sia tra di loro. Noi li educhiamo ad un rispetto reciproco e soprattutto alla cura nella diversità. Io e Tiziana li consideriamo tutti figli e cerchiamo di trattare non tutti allo stesso modo, ma secondo quello di cui ognuno di loro ha bisogno, cioè loro si devono sentire amati individualmente e personalmente, sia se figli generati e accolti sia se figli naturali, devono sentire che mamma e papà hanno un attenzione particolare per ognuno di loro. A quel punto capiscono anche il grande dono della fraternità e il senso di una famiglia allargata.
Ci vuole parlare di una sua particolare esperienza di accoglienza?
Ricordo con gioia il primo bambino che don Oreste mi aveva affidato, un bimbo di 6 anni che si chiamava Simone, gravemente cerebroleso che adesso è andato in paradiso. È stato il primo caso di accoglienza che ci ha dato l’opportunità di vivere la fraternità in una carità responsabile. Lo stesso giorno in cui questo bambino è mancato, ci è arrivata una lettera con la richiesta di una bambina di 6 anni down che si chiamava Simona. Lei oggi ha 20 anni ed è qui con noi. Noi abbiamo interpretato il suo arrivo come un passaggio di testimone, cioè Simone saliva al cielo ma intanto ci faceva un regalo, cioè l’arrivo di Simona che oggi fa parte della nostra famiglia.
Nella sua casa famiglia si fa anche un cammino di fede, nell’associazione queste due cose si intrecciano continuamente?
Sono comunità che nascono dalla fede cristiana, nel cammino ecclesiale della Chiesa Cattolica. Per stare con i poveri bisogna affidarsi completamente al Signore. Ogni giorno sentiamo che la nostra forza è la vita con Cristo, e ai nostri figli oltre a dargli le cose materiali, necessarie, dobbiamo prima di tutto trasmettere il senso della vita, il gusto per l’infinito e per l’assoluto.
Esattamente è un anno che lei è stato eletto nuovo responsabile dell’Associazione, cosa significa stare al posto di un uomo come don Oreste Benzi?
È una responsabilità bellissima da una parte, ma dall’altra è anche molto impegnativa e coinvolgente perché abbiamo 500 comunità sparse in tutto il mondo e quindi il compito è anche quello di incontrare a tu per tu tutti i fratelli e sorelle sparsi ovunque. Ma in questo modo sto scoprendo tutte le meraviglie che Dio sta operando in questa comunità e in modo particolare attraverso la condivisione con i più poveri.
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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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