Una legge per Eluana
di Carlo Casini
La vicenda di Eluana lascia tanti interrogativi senza risposta. Domande che pesano sulla vita di chi, vivendo la stessa situazione della Englaro, non sembra essere più tutelato dalla legge.
Mentre scrivo non so ancora se tra pochi giorni Eluana sarà viva. Quando nell’agosto scorso ho cominciato a riflettere sul caso (ne è uscito il libro “Eluana è tutti noi”, scritto insieme a Marina Casini e Maria Luisa Di Pietro) mi convinsi che una legge doveva essere rapidamente fatta per salvare Eluana. E ora, se la giovane lecchese non ci sarà più? Non servirà più una legge? Servirà, eccome. Perché ci sono mille e mille Eluane la cui vita non è più garantita dalla legge.
Ma quale legge dobbiamo tentare di ottenere? Bisogna in primo luogo scoprire la radice negativa dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel caso Eluana. Essa sta nella discriminazione tra vite degne e vite non degne di vivere. Chi impedisce a qualcuno di uccidersi, sia pure in piena lucidità mentale e libertà e anche se per far questo usa la forza, non viene considerato un colpevole violatore della altrui autodeterminazione, ma, anzi, merita lode e riconoscimento persino pubblico. La vita di colui che si era gettato nel fiume o si stava puntando la pistola alla tempia è indisponibile. Perché la vita dei disabili in condizioni simili a quelle di Eluana sarebbe, invece, disponibile? Questa discriminazione è mascherata con il richiamo all’art. 32 della Costituzione. Il diritto alla cura – si dice – comprenderebbe il diritto alla non cura.
Che significa “cura”? Possibile che il diritto alle cure, che la Costituzione qualifica “interesse della collettività” tanto da esigere la solidarietà dello Stato, stia sullo stesso piano di un preteso diritto alla non cura? Perché mai i consigli e le pressioni rivolte a chi non vuole curarsi affinché si curi sono leciti, opportuni e lodevoli, mentre è disdicevole e costitutivo di reato premere su chi vuole curarsi affinché non lo faccia? Perché mai un articolo che garantisce la salute e la cura dovrebbe garantire anche il rifiuto della possibile guarigione e ultimamente della vita? Un’altra domanda riguarda il “trattamento terapeutico”. Che significa “terapia”? Basta la presenza di un medico? Può dirsi “trattamento terapeutico” l’ amputazione di un dito per godere truffaldinamente di una assicurazione? Se manca il fine curativo può dirsi “terapeutico” un determinato trattamento medico? Togliere un pacemaker a un malato di cuore è la stessa cosa che applicarlo?
Emerge un’altra decisiva domanda: è il consenso o è il fine dell’attività medica che la rende lecita? Il consenso è il fondamento o la condizione per l’esercizio del trattamento sanitario? Perché è necessario allora il consenso? È evidente: perché nessuno può mettere le mani addosso ad alcuno usando una violenza contraria alla dignità umana e perché l’efficacia terapeutica esige la collaborazione del malato. Nasce qui l’idea moderna di “alleanza terapeutica”. Non ho dato soluzioni di dettaglio, ma credo di aver indicato binari su cui tutti, in primo luogo i parlamentari, dobbiamo riflettere.
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