Finalmente a casa
di Marco Giordano
Anche i non addetti ai lavori sanno della legge che ha decretato la “chiusura” degli istituti per minori entro la fine del 2006 (legge 149/01, modificativa della 184/83). Si è trattato dell’ultimo atto di una graduale maturazione degli interventi di sostegno all’infanzia ed all’adolescenza, sempre più attenti ad affiancare alle cure materiali anche la risposta ai bisogni educativi, psicologici ed affettivi dei minori.
Anche i non addetti ai lavori sanno della legge che ha decretato la “chiusura” degli istituti per minori entro la fine del 2006 (legge 149/01, modificativa della 184/83). Si è trattato dell’ultimo atto di una graduale maturazione degli interventi di sostegno all’infanzia ed all’adolescenza, sempre più attenti ad affiancare alle cure materiali anche la risposta ai bisogni educativi, psicologici ed affettivi dei minori.
Non tutti però sanno se davvero gli istituti sono stati chiusi? La prima riposta desumibile dai dati diffusi dal Governo è affermativa. “Il percorso di chiusura degli istituti è sostanzialmente completato”. Così è detto in una nota ministeriale del marzo 2008, in cui si parla di un generalizzato rispetto della previsione normativa, ad eccezione di un residuo di 10 istiuti ancora in via di chiusura, ospitanti complessivamente 45 minori (numero irrisorio se paragonato ai 2.663 minori in istituto del giugno 2003).
Ad uno sguardo più attento viene però da porsi un’altra domanda: Dove sono finiti gli altri bambini e ragazzi? Sono tutti andati in una famiglia o ve ne sono ancora alcuni accolti in strutture residenziali? I dati diffusi dal Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza nel novembre 2008, parlano di 24.094 minori fuori famiglia, di cui 12.551 in affido a familiare e 11.543 accolti presso servizi residenziali.
Ora se è priva di ambiguità la dicitura, “minori in affido”, con la quale si intende l’essere ospitati presso famiglie o persone singole (che nella maggior parte dei casi sono legate al minore da un rapporto di parentela), molto meno univoca è la definizione di “servizi residenziali”.
A dire il vero la legge di chiusura degli istituti aveva adottato una terminologia più chiara. All’art. 2 comma 2, si parla infatti di “comunità di tipo familiare, caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia” nella quale i minori possono essere inseriti laddove non sia possibile l’accoglienza presso una famiglia.
Questa indicazione, a prima impressione ben chiara, basata sulla consapevolezza che gli istituti non rispondono più alle esigenze del nostro tempo, in realtà porta con se non poche difficoltà interpretative ed attuative. Bisogna infatti chiedersi cosa si intende per comunità di tipo familiare?
Una prima risposta a riguardo ci viene da un’altra ricerca del Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, non molto recente ma comunque indicativa. Secondo questa ricerca nel 1999 il 60% delle strutture residenziali italiane aveva una disponibilità ricettiva massima fino a 10 minorenni. Nel commento che accompagna i dati si ritiene tale “dimensione sicuramente accettabile anche perché intermedia tra il valore di 8, indicato come massimo auspicabile sia dal Coordinamento Nazionale delle Comunità di accoglienza che dal Coordinamento nazionale Comunità per minori di tipo familiare e il valore di 12 che rappresenta la soglia che distingue la Comunità Educativa dall’Istituto secondo il documento della Conferenza Stato-Regioni del gennaio 1999”.
Altra indicazione, sempre non molto recente, che riprende e conferma il tetto dei 10 posti, è il Decreto del Ministro della Solidarietà Sociale (Turco) n. 308 del 21 maggio 2001 recante “Requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale, a norma dell’articolo 11 della legge 8 novembre 2000, n. 328” che, nel definire quattro diverse tipologie di servizio residenziale, ne individua una a “carattere comunitario” con una recettività massima, nel caso di ospiti minori, di 10 posti, cui possono aggiungersene ulteriori 2 solo per far fronte ad emergenze.
Questo dunque il “tetto quantitativo” stabilito dal Governo, nell’intento di evitare grandi assembramenti di minori. Resta tuttavia il rischio di limitarsi a fissare il numero massimo dei componenti senza fare alcuna precisazione di tipo qualitativo, in particolare circa la forte differenza che caratterizza le strutture gestite da una famiglia residente da quelle animate da personale turnante. Senza chiarezza rischia di restare disatteso il necessario percorso di radicamento e sostegno a modalità di accoglienza di tipo autenticamente familiare.
Certo non va dimenticato che le Regioni, ai sensi dell’articolo 11, comma 2, della legge n. 328 del 2000, sono incaricate di fissare ulteriori criteri in relazione alle esigenze locali, ma l’assenza di riferimenti normativi nazionali circa il tipo di relazione instaurata all’interno della struttura residenziale espone tutto il percorso della de-istituzionalizzazione ad un forte rischio di fallimento.
Non è un caso che lo stesso Centro Nazionale nelle sue indagini non utilizzi il termine “comunità di tipo familiare” bensì la molto più generica dicitura “servizio residenziale”.
I dati di alcune regioni confermano i timori. Ad esempio in Campania la lista dei servizi residenziali per minori fornita dal Settore Regionale Assistenza, riporta 286 strutture, di cui solo 32 caratterizzate dalla presenza di un nucleo familiare residente. Tutte le altre (l’89% !!!) sono organizzate con personale turnante.
Le norme ed i regolamenti sembrano non cogliere che una famiglia, oltre al rapporto di sangue (che ovviamente non si può replicare) ed al numero contenuto dei membri, è caratterizzata anche da una “relazione di convivenza”, che significa identità, condivisione del vissuto e della storia personale,… Il compianto don Oreste Benzi spesso concludeva i suoi interventi sul tema raccontando la “supplica” che alcuni bambini di una comunità avevano rivolto ad una loro educatrice (turnante) dalla quale si sentivano particolarmente amati: “perché non mi porti a casa tua ?”.
Lungi dal ritenere che la semplice presenza di una famiglia possa fare da toccasana per tutti i mali, appare necessario avviare una riflessione seria e diffusa circa i motivi che soggiacciono alla scelta di inserire un minore in una comunità che offre o meno un percorso di “convivenza” tra chi accoglie e chi viene accolto. Tecnicamente si parla di “criteri di abbinamento minori/comunità”, quali ad esempio possono essere la preferenza nel collocare minori vittime di abuso e maltrattamento nelle strutture terapeutiche dotate di personale turnante specializzato, o la preferenza ad inserire in case famiglia o in comunità educative con personale residente i minori il cui percorso di crescita richiede relazioni affettive significative e stabili.
Certo, pur non avendo a disposizione stime ufficiali o dati completi, sentiamo di poter affermare con forza che i minori bisognosi di vivere con una famiglia sono sicuramente di più dell’11% del totale ospitato nei servizi residenziali.
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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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