La forza dell’Amore

di Antonietta Abete

La storia di L., bimba di 8 anni, che ha vissuto 12 anni in coma

È andata via da tre anni la piccola L.. Così la chiamavano tutti, perché aveva solo 8 anni quando un’auto l’ha inchiodata al grande cancello giallo della sua abitazione, in un caldo pomeriggio di luglio.

Era uscita per andare a comprare un regalo per l’onomastico della sua mamma. «Lei era fatta così –  racconta C. – non dimenticava nessuna ricorrenza».

Quel dì caldo e soleggiato si è tramutato in un giorno funesto e triste, l’inizio di una battaglia durata molti anni. Nessun medico avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza: all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno le avevano dato meno di 10 giorni di vita. L., invece, bambina dal carattere forte e tenace, ha smentito ogni pronostico ed è restata in vita 12 anni.

Un’esistenza diversa dalla precedente, ma ugualmente piena di dignità e amore, protetta dall’affetto della famiglia che oggi, a tre anni dal suo ritorno alla casa del Padre, ne sente terribilmente la mancanza. Mamma C. farebbe di tutto per averla ancora con lei.

La diagnosi, dopo il grave incidente, non lasciava molte speranze: L. versava in coma da 4° stadio per lacerazioni emorragiche a tutto il parenchima cerebrale.

Dopo tre mesi a Salerno, L. fu dimessa e trasferita a Milano, presso l’ospedale “Guido Salvini” di Garbagnate Milanese. Il plesso ospedaliero era dotato di un centro per il risveglio per neurolesi, ma L., troppo piccola, fu sistemata in pediatria. Lì un incontro speciale, quello con il dott. Piria, che ha avuto un ruolo insostituibile, insieme alla sua equipe, nella vita di C. e di sua figlia.

Le vicende che scuotono una famiglia che vive un dramma così grande sono numerose, è impossibile raccontarle tutte.

Tuttavia, la storia della piccola L. e della sua mamma non è fatta solo di dolore, ma anche di un amore sconfinato che le ha legate in un vincolo indissolubile.

Il percorso psicologico di mamma C. è stato duro. «Ho dovuto accettare che la bimba di prima, vispa e intelligente, non c’era più. Al suo posto avevo una figlia nuova, diversa, che aveva bisogno della sua mamma. Senza l’aiuto della psicologa non sarei riuscita a fare questo passaggio, doloroso ma indispensabile. È stata dura, la rianimazione è un tunnel che ha un filo diretto con la morte. Quando ero a Salerno, insieme ad altri genitori, in una piccola stanza fuori dalla terapia intensiva, ogni volta che arrivavano i medici, sapevamo che sarebbe toccato a qualcuno di noi udire quelle parole che nessun genitore al mondo vorrebbe mai ascoltare. Sono stati mesi terribili».

La sorte, a volte, sembra accanirsi contro chi è stato già duramente provato. «A Milano, decisero di praticare la tracheotomia per aspirare il liquido alla testa formatosi in seguito all’incidente. Giunti al Niguarda, il dott. Piria, che ci accompagnava, ebbe un infarto. L. non fu più operata. In seguito, prese una setticemia da stafilococco e passò un anno prima che potesse essere operata. Nessuno potrà mai dire se e cosa sarebbe cambiato non rimandando così a lungo quell’intervento».

Dopo 2 anni, L. finalmente ritorna a casa. Medici, infermieri e volontari, con un’azione corale, hanno insegnato a C. ad occuparsi al meglio di sua figlia. «Non sapevo più fare neppure un caffè». Un giorno le infermiere di Garbagnate arrivarono con un fornellino e una macchinetta. «Oggi il caffè non lo prendiamo al bar, lo prepari tu», le dissero.

Il ritorno all’intimità della propria casa fu bello,  ma, tempo qualche mese, una febbre persistente, le costringe a ripartire.

«L. era cresciuta e la colonna vertebrale premeva sul cuore. Bisognava inserire una protesi che bloccasse la crescita, altrimenti le restavano solo sei mesi di vita. Un’operazione di routine per i bambini affetti da scoliosi, ma complicata per una bimba in coma: l’intervento durava 10 ore». Nessuno era disposto a correre quel rischio, ritenuto quasi “inutile”.

Il dott. Piria non si arrese, contattò gli ospedali di mezzo mondo. Arrivò una risposta positiva dalla Francia e dal Galeazzi di Milano su cui cadde la scelta.

L’equipe medica ebbe un colloquio con mamma C..

«Signora, perché vi accanite così. Per qualche mese potete averla ancora con voi, se entra in sala operatoria non sappiamo se ne uscirà viva».

«È mia figlia, ho il dovere di tentare ogni strada».

L., in coma già da due anni, viene operata ed apre in Italia la strada per interventi di questo tipo. Dopo tre mesi è di nuovo a casa. E ha vissuto altri 10 anni.

C. ha al dito un anello del rosario. Me lo mostra spiegandomi che era di L.. Quando la piccola non sentiva la sua voce, con l’unica mano che riusciva a muovere, tintinnava vicino alla sbarra di ferro del suo lettino. Come le madri badesse dei monasteri di clausura fanno risuonare l’anello per richiamare le consorelle alla preghiera, così la piccola Lucia richiamava la sua mamma a quella misteriosa liturgia d’amore.

Il quotidiano aveva un sapore nuovo e ritmi diversi. L. soffriva di epilessia. Assumeva un farmaco che le permetteva di dormire qualche ora, fino a mezzanotte. Poi, rimaneva sveglia fino al mattino e con la luce rigorosamente accesa. La notte era lunga, bisognava combattere con le difficoltà respiratorie che, con il buio, si acuivano, con quei muchi che la crocifiggevano. Spesso era necessario chiamare lo zio medico o una vicina infermiera che “accorreva scalza”. Capitava anche di dover andare in ospedale, con autoambulanze che spesso tardavano e non sempre erano attrezzate per una bimba con i problemi di L..

Alle prime luci dell’alba, L. si addormentava fino alle 8. Poi iniziava la liturgia d’amore quotidiana: il bagno, la somministrazione dei farmaci, la ginnastica, un po’ di sonno prima del pranzo somministrato con sacche attraverso il PEG (Gastrostomia Percutanea Endoscopica che consente di introdurre alimenti direttamente nello stomaco in soggetti con patologie che impediscono il normale transito del cibo dal cavo orale allo stomaco, ndr).

E la voce della mamma era il sottofondo che non doveva mai mancare. C. infatti le parlava sempre, anche quando si allontanava dalla sua stanza per sbrigare qualche faccenda domestica. «L., mamma sta cucinando…». Ora che lei non c’è più, è questo silenzio che avvolge la casa il dolore più grande per C..

Parlando di quei genitori che, dinanzi ad un dramma tanto grande, scelgono di lasciare i figli in ospedale o conducono battaglie per staccare “la spina”, C. sostiene: «Pur senza giudicare nessuno, perché ci sono passata e so quanto sia dura, credo che quando sostengono di farlo per il bene dei figli, mentono. Penso che lo facciano per il loro bene, per quel desiderio inconscio di ritornare ad una vita normale. Ma si illudono. Si può riprendere una vita normale dopo che un figlio ci ha lasciato?».




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