Per questo vale la pena vivere!

>La storia di Vittorio Trancanelli, medico esemplare e testimone di speranza al Convegno di Verona, che insieme alla sua sposa Lia, ha vissuto un’autentica esperienza di santità coniugale

E’ una donna semplice Lia Sabatini, emozionata ma con un grande desiderio di comunicare quell’amore che si porta dentro, che le ha cambiato la vita, che la accompagna ogni giorno.

Quell’amore che adesso la sospinge ad andare ovunque la chiamino per parlare di lui, del suo Vittorio, della loro famiglia, dei figli, del lavoro vissuto con eroica dedizione. “Per questo, vedi Lia, vale la pena vivere – le ha detto Vittorio nell’ora della morte, circondato dai suoi figli –  anche se fossi diventato chissà chi, se avessi avuto i soldi in banca, avessi comprato tante case, cosa avrei portato con me adesso? Cosa portavo davanti a Dio? Adesso porto l’amore che abbiamo dato a queste persone”.

Chi si sporge per un momento sul balcone della memoria di Lia che racconta la storia del suo matrimonio con Vittorio, resta colpito dalla straordinaria docilità a Dio che ha caratterizzato la loro vita. Senza suonare le trombe, al riparo dalle luci della ribalta, umili anche di fronte alle umane soddisfazioni del lavoro perché Vittorio era un medico eccellente, all’ombra della croce che li ha accompagnati da subito nel cammino coniugale, sono rimasti fedeli a Dio e alle sue richieste che si manifestavano in un ascolto costante e attento della Parola.

Vittorio e Lia si sono conosciuti nella prima giovinezza, lei aveva 15 anni, lui 21: “Come fanno tutti i fidanzati sognavamo tante cose, volevamo tutti e due seguire il Signore, diventare missionari. Ma quando ci siamo sposati abbiamo capito subito che il Signore  aveva un’altra strada per noi” –  ricorda Lia –  “infatti dopo pochi mesi dal matrimonio quando io aspettavo un bambino, Vittorio si ammala gravemente di colite ulcerosa, una malattia che a quel tempo non si conosceva bene. E così abbiamo cominciato un pellegrinaggio doloroso come un calvario. Io ho perso il bambino che aspettavo, Vittorio stava malissimo”. Comprendono che la loro vocazione non è la missione ma non smettono di amarsi nel Signore anzi il loro bene cresce di giorno in giorno. Dopo cinque anni dalla perdita del primo bambino, arriva un’altra gravidanza. Sono felici, pieni di gratitudine ma ecco l’ombra dalla malattia riapparire nella loro vita.

Quando Lia è al settimo mese Vittorio si ammala di nuovo. “All’inizio pensavamo ad un’influenza. Anche i colleghi di Vittorio che venivano a visitarlo non davano importanza alla cosa. Ma un giorno io ero al nono mese della gravidanza, Vittorio ha cominciato a stare molto male e allora io avendo capito la gravità della cosa,  l’ho preso e portato in ospedale e in radiologia abbiamo fatto una lastra all’addome. Vittorio è uscito fuori con la lastra in mano e mi ha detto: “Lia io sto morendo!”. Da molto tempo prendeva delle medicine contro il dolore e non si era accorto che la colite era andata in peritonite. Il primario, appena mi ha visto, mi disse: “Non c’è nulla da fare”. Mentre racconta quelle ore di angoscia Lia è molto turbata: “L’hanno portato subito in chirurgia e hanno cercato di prepararlo per l’operazione urgente e lì Vittorio mi ha detto: “Lia chiamami un sacerdote, voglio confessarmi”.

Dopo, quando siamo rimasti due minuti da soli prima dell’operazione io gli ho chiesto se aveva paura e lui mi ha detto: “No Lia, perché io ho speranza nel Padre nostro, ma ho paura e sono triste per te che dovrai crescere da sola questo bambino”. Neanche il tempo di dire questo che sono arrivati con la barella e lo hanno portato via e io sono rimasta da sola con il mio pancione.” Sono ore di angoscia per Lia, l’ospedale improvvisamente diventa deserto, gli infermieri erano tutti a piangere da qualche parte e i medici erano tutti in sala operatoria. Lia si è attaccata al telefono e ha chiesto a tutti di andare a pregare per il suo sposo. Dopo tante ore, dalla mattina alla sera, l’operazione finisce e racconta Lia: “il Signore ci fa un regalo, Vittorio non muore, però rimane gravemente menomato perché gli hanno dovuto praticare la ileostomia (l’abboccamento chirurgico di un tratto dell’intestino o delle vie urinarie alla cute consentendo la fuoriuscita all’esterno di materiale organico, feci ed urine) e aveva 33 anni”. Dopo nove giorni dalla sua operazione è nato Diego. Appena nato subito lo hanno messo nell’incubatrice e lo hanno portato a vedere a Vittorio. Quei giorni di grande dolore per la sorte di Vittorio fanno capire ad entrambi che tutto è  nelle mani di Dio, che il loro matrimonio doveva diventare una risposta di gratitudine a Colui che aveva preservato Vittorio dalla morte.

“Volevamo fare della nostra casa una chiesa, una vera chiesa. Siamo andati alla ricerca nel Vangelo di qualcosa che potesse darci un’idea di cosa potesse essere un tabernacolo nella nostra casa e l’abbiamo trovato: “Chi accoglie uno di questi piccoli, accoglie me”. Accogliere un bambino, ma in che forma? Non lo sapevamo, abbiamo solo deciso di aprire le porte della nostra casa.” Dopo poco tempo a casa Trancanelli arrivano due fratellini da Firenze.

“E’ stata una fatica terribile, non è stato tutto rose e fiori. I ragazzi erano abituati a vivere in mezzo alla strada, a vivere magari saltando dalla terrazza sopra l’autobus in corsa ed avevano quattro e cinque anni. Poi piano piano hanno cominciato a capire, e con il passare del tempo si sono tranquillizzati”. Sorride Lia ripensando alla loro vita insieme: “La nostra vita familiare era tanto bella. Per esempio la domenica mattina prima di andare alla messa ci mettevamo tutti intorno al tavolo, dopo la colazione il primo pensiero era per il Signore, e si recitavano le lodi, al posto della lettura breve si leggeva il brano del Vangelo della liturgia del giorno e poi si meditava e che cose belle venivano fuori, soprattutto dai bambini!” Dopo otto anni Lia e Vittorio decidono di aprirsi nuovamente all’accoglienza. La bambina che accolgono è somala e malata di diabete, deve fare quattro insuline al giorno. La prima cosa che insegnano a Nadia è come gestire la propria malattia: come fare l’insulina, come fare per essere autonoma.

Questo dà la possibilità a Nadia di rientrare in famiglia, in Pakistan. Ma il Signore continua a bussare: “Avevamo ancora Nadia, quando in ospedale ci mandarono a chiamare, c’era una caposala che era malata da otto anni e che era giunta alla fine della sua vita. Questa infermiera aveva una bambina down e ci ha chiesto di non permettere che la figlia andasse a finire in istituto, non aveva però il coraggio di chiederci di prenderla in casa. Noi siamo andati a casa e la sera abbiamo pregato, ci siamo fatti delle domande. Ci siamo detti che sicuramente prendendo un bambina down la nostra libertà sarebbe stata limitata ma se il Signore voleva anche la libertà noi eravamo pronti a dargliela. La mattina dopo siamo andati dalla madre e le abbiamo detto: “Se pensi che Alessandra possa stare bene nella nostra casa, noi siamo contenti di prenderla”.

La mamma che era ridotta proprio male, ricoverata in oncologia, si è messa seduta sul letto con tutte le forze che aveva, ci ha fatto il segno di croce sulla fronte e ci ha ringraziati per il bene che le stavamo facendo, poi si è messa a letto ed è morta dopo pochi giorni.”

Alessandra è una bambina down cha Lia definisce un angelo. “Parlava con Vittorio e gli diceva: “Babbo, tu sei come Giuseppe perché sei buono, silenzioso, bravo, e padre tutto speciale”. E Vittorio si riempiva di gioia, era orgoglioso di Alessandra. Dopo poco tempo,  il parroco ci chiama e ci dice che c’è una mamma con quattro bambini da prendere in casa, noi avevamo una casa di 100 mq e già eravamo in tanti. Allora ci siamo detti, va beh, ci stringiamo tutti, mettiamo due letti a castelli per questa mamma con i suoi figli.

Questa donna era stata buttata fuori di casa dal marito. L’abbiamo presa in casa e abbiamo anche seguito tutta la situazione legale. La stanchezza a quel punto era tanta e così abbiamo chiesto ai nostri amici se volevamo condividere questa nostra esperienza di accoglienza.

E così è iniziata una collaborazione, c’era chi andava a fare la spesa, chi mi dava una mano a stirare, chi accompagnava i bambini a scuola. E dopo, quando l’emergenza di questa mamma è finita ci siamo detti che era bello continuare a stare tutti insieme, a pregare insieme e a vedere cosa il Signore vuole da noi”.

E’ nata così l’associazione “Alle Querce di Mamre”, definita così da Vittorio che era anche un attento studioso dell’ebraico e della sacra scrittura. “L’abbiamo chiamata così – chiarisce Lia – perché come Abramo accolse i tre personaggi che passavano di lì nell’ora più calda, e li accolse con tutto il cuore e gli dette tutto quello che aveva, così noi vogliamo accogliere ogni persona che passa dalle querce di Mamre, perché se accogliamo queste persone, accogliamo Dio.”

Le persone che ospitano vengono da tutte le parti del mondo, dall’Equador, dal Brasile, dal Perù, dall’Albania, dall’Africa, dal Marocco, dalla Nigeria, dal Camerun, dalla Tanzania.

Nel 1997 Vittorio ha cominciato ad ammalarsi un’altra volta, erano passati vent’uno anni, ma questa volta la malattia lo ha portato alla morte in tre mesi. Il 24 giugno 1998. “Io penso che veramente quando Vittorio è andato in paradiso il Signore gli abbia detto ciò che c’è scritto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Venite benedetti dal Padre mio, ricevete l’eredità preparata per voi fin dalla fondazione del mondo, perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi, in verità vi dico che ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Questo penso che gli abbia detto quando Vittorio si è presentato di fronte a Dio”.

Al funerale di Vittorio il vescovo, Mons. Chiaretti, ha detto che sicuramente Vittorio era stato un santo, ma tu Lia ti senti parte di questa santità? “Noi siamo uniti dalla fede, e dicevamo sempre che chi andava in cielo per prima preparava la strada per l’altro. Io ho sempre nel cuore un sogno fatto dopo la morte di Vittorio. Io ero in casa con 5 bambini e tante cose da fare ad un certo punto sento qualcuno alle spalle ed era Vittorio, tutto vestito di bianco, pantaloni bianchi, camicia bianchi, mani in tasca come era lui di solito e io gli ho detto: “Vittorio ma tu sei morto!”, come per dire cosa vieni a fare qui in mezzo ai guai e agli affanni, e lui mi ha guardato e mi ha detto: “Ma io Lia non sono morto, sono con il Vivente” e io non posso che essere felice che sia lassù. È solo un sogno però penso che sia un segno forte di comunione.”




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