Crescere da soli

di Silvio Longobardi

”Non avere maestro è non avere a chi domandare e, in un senso ancora più profondo, è non avere nessuno davanti a cui porsi delle domande”: lo scriveva Maria Zambrano a metà del secolo scorso. E aggiungeva: “Ogni vita è in principio prigioniera, aggrovigliata nel proprio impeto. E il maestro deve essere colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vita, quella vera”. Sono parole che appaiono oggi ancora più attuali.

I media ci pongono ogni giorno dinanzi al male che attraversa la nostra società, si tratta di eventi dolorosi che spesso aprono interrogativi inquietanti. Ma vi è un altro male, più nascosto, ma non meno pericoloso.

È la cultura che esalta l’indifferenza perché non conosce più il bene e il male; una cultura che non trasmette più valori e che ha rinunciato perfino ad insegnare.

Chi scruta con attenzione il mondo adolescenziale avverte una profonda inquietudine.

I ragazzi di oggi godono di maggiore libertà e tuttavia hanno fretta di acquisire una piena autonomia; rimangono volentieri in famiglia ma non percepiscono più di essere parte di una storia che li precede e li accompagna; hanno tutto ma si sentono insoddisfatti. Infastidisce la superficialità con cui affrontano la vita. Una volta l’adolescenza era l’età degli ideali. Quella in cui si sognava ad occhi aperti, con scoperta ingenuità. Oggi invece anche i ragazzi appaiono più smaliziati, cinici in qualche caso: “fatti la storia, senza pensieri, mica te lo devi sposare”. I sentimenti passano in secondo piano, prevale il bisogno di vivere esperienze emozionali gratificanti. È la cultura del “carpe diem”. Forse per questo nel nostro Paese cresce il numero dei ragazzi che fa uso di droga, anche di quelle pesanti come cocaina ed eroina.

Ma tutto questo accade a causa della quasi totale assenza di un vero e costante confronto educativo.

I ragazzi hanno bisogno di incontrare adulti che danno loro fiducia ma li invitano a vivere con responsabi-lità; adulti che hanno il coraggio di dire che l’amore non è solo un’emozione ma una scelta che impegna a costruire legami duraturi; adulti che sanno aiutarli a distinguere il bene e il male e a compiere scelte che non siano dettate solo dalla convenienza.

A casa vedo babbo alle sei quando gli scaldo il caffé, ne bevo pur’io, non dice niente. Finché c’era mam-ma pigliavo il surrogato, ora se mi metto a fumare neppure se ne accorge. I grandi vanno dietro ai loro guai e noi restiamo nelle case sorde che non sentono più un rumore”. È uno dei passaggi più significativi di Montedidio, uno degli intensi e raffinati racconti di Erri De Luca, in cui si narra la vicenda di un ragazzo di 13 anni, in quella fase decisiva in cui diventa uomo: inizia a lavorare presso una falegnameria, incontra una ragazza della sua stessa età ma assai più smaliziata, vive l’esperienza della morte prematura della mamma. Il ragazzo cresce nella povertà di una Napoli appena uscita dalla guerra. Ma vive in un ambiente popolato da persone adulte che sanno comunicargli il senso e la dignità dell’esistenza. Questi adulti, che sostituiscono i genitori che non possono occuparsi di lui, sono i suoi veri maestri, come e più di quella scuola che non ha potuto frequentare.

In una società degna dell’uomo nessuno deve mai crescere da solo. I nostri ragazzi hanno bisogno di incontrare maestri che aprono la mente e il cuore, insegnano a leggere la realtà senza pregiudizi e a scrivere senza paure un nuovo e originale capitolo di quella straordinaria vicenda umana che si chiama storia.




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