Un germoglio fra sassi e asperità

Il passato e il presente della comunità nelle parole di Pietro, attuale presidente di Nomadelfia.

Nomadelfia è una proposta di comunità sociale che sembra resistere all’usura del tempo contro ogni previsione. Allora è davvero possibile costruire una nuova civiltà fondata sul vangelo? Lo abbiamo chiesto a Pietro, presidente di questa comunità. “Noi ci stiamo provando, non c’è nessuna garanzia che resista nel tempo. Quello che ritengo importante è rimanere fedeli e coerenti all’ideale ricevuto”. Pietro è un uomo risoluto e pratico, è arrivato a Nomadelfia nel 1970 con sua moglie e il suo bambino di 10 mesi, ha partecipato alle carovane istituite da don Zeno nel 1975 quando con un gruppo di giovani, una roulotte e una piccola tipografia montata su un autoarticolato si andava in giro per l’Italia ,stampando opuscoli che diffondevano la proposta di Nomadelfia. I suoi occhi si illuminano mentre ricorda quel periodo della sua vita ma nello stesso tempo le ferite del dolore e delle difficoltà emergono.

I momenti difficili

Pietro mi racconta che Nomadelfia ha vissuto dei momenti molto difficili.

“Ci sono stati dei giorni nei quali lo stesso don Zeno pensava addirittura di sciogliere Nomadelfia. Ricordo che nel 1954 don Zeno diceva che le famiglie si erano rinchiuse, non si respirava più accoglienza a solidarietà tra di esse. Pensava di aver fallito. Poi una notte meditando con un altro nomadelfo, quando ormai aveva già preso questa decisione, gli è venuta in mente la sua famiglia, una grande famiglia patriarcale, e diceva che loro erano insieme perché erano parenti, noi invece non nella carne, non nel sangue, non per volontà dell’uomo, ma di Dio eravamo insieme. E così ha creato i gruppi familiari, diverse famiglie insieme, nello spirito del vangelo”. Molte famiglie non hanno accolto questo invito e sul momento ne sono andate via 16 su 48, quelle che hanno deciso di restare hanno costruito i gruppi familiari. Le difficoltà non erano solo esterne. Molte voci di uomini di Chiesa e anche politici a quel tempo contestavano tantissimo don Zeno, non solo non lo capivano, ma lo combattevano. “Io penso soprattutto perché non hanno capito la sua traiettoria, – mi risponde Pietro, – la Chiesa però è sempre stata molto attenta al carisma del nostro fondatore, anche magari quando don Zeno criticava certi aspetti e certi uomini del clero. Dopo il periodo di allontanamento di don Zeno da Nomadelfia (aveva chiesto la laicizzazione pro gratia per poter salvare il salvabile), durato dieci anni egli ha chiesto e ottenuto di poter essere reintegrato pienamente al sacerdozio. Si può dire che Nomadelfia in 10 anni ha avuto un riconoscimento che solitamente si ha in 50 anni. L’ atto di obbedienza di don Zeno ha portato i frutti e da allora Nomadelfia non ha più avuto problemi con la Chiesa anzi proprio negli anni bui don Zeno scrisse: “Il Papa ci abbraccerà”, e quando il Papa nel 1989 è entrato qui a Nomadelfia è passato sotto uno striscione dove c’era scritta questa stessa frase”. Chiedo a Pietro di raccontarmi le ore trascorse insieme a don Zeno e lui mi dice che: “Don Zeno non era il classico esempio di santo con il collo storto e le mani giunte. Aveva una personalità molto forte e nello stesso tempo molto semplice e umano. Aveva il pensiero sempre sulle cose importanti”.

Per don Zeno il vangelo ha la capacità di trasformare tutte le realtà. In che modo ricercate la santità sociale? “Don Zeno parlava della santità sociale quando ancora non se ne parlava nella Chiesa, diceva: “In questo momento forse i tempi hanno bisogno più che di grandi santi come nel passato, di una santità costituita da molte persone insieme”. E aggiungeva che il desiderio personale di farsi santo inserito in una comunione di vita genera la santità sociale. Essere nomadelfi non si riduce a mettere insieme i beni materiali, c’è molto di più. C’è la vita spesa insieme, c’è l’amore e l’apprensione per i figli, c’è la comunione di vita nei gruppi familiari.

Il lavoro a Nomadelfia

Qui a Nomadelfia c’è anche un modo di intendere il lavoro molto particolare. Hanno una cassa comune, nessuno viene pagato per il lavoro che svolge. Pietro sottolinea che il principio generale si basa sulla definizione per cui il lavoro è un atto di collaborazione a Dio. Poi nella pratica ognuno viene destinato a quell’attività nella quale è più adatto secondo le necessità della comunità e anche tenendo conto del patrimonio di esperienza che si porta dietro. Sono disponibili, però a qualsiasi tipo di attività o di lavoro. Non sono pagati per niente, non c’è neppure una quota mensile, una piccola mancia. Se uno ha bisogno si rivolge alla cassa comune. Ma la mia obiezione è spontanea quando penso che ci sono dei lavori che hanno un ruolo sociale e comunitario diverso rispetto ad altri. Come viene vissuto questo aspetto? “Intanto non ci sono privilegi” si affretta a chiarire Pietro “perché la nostra costituzione dice che l’accettazione delle cariche è obbligatoria, quindi una persona in un momento può essere responsabile di un’azienda e il giorno dopo si trova a fare tutt’altro. Certo non dico che faccia piacere questo, però nel momento in cui uno si fa nomadelfo si rende disponibile per un atto di coerenza e di obbedienza.”




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