Semplicemente un figlio

di don Silvio Longobardi

La pretesa di un figlio perfetto, triste epilogo di una diagnosi errata.

E’ morto alla vigilia dell’8 marzo, festa della donna. Pesava appena 500 grammi ed era alla 22a settimana di gestazione. Troppo piccolo per vivere. Non si è trattato però di un caso, quel bambino è vittima di una cultura che pretende un figlio perfetto e di una medicina che ha diagnosticato un’inesistente malformazione. Ma vittima soprattutto di una legge che a parole difende il ruolo sociale della maternità ma nei fatti provvede a concedere l’aborto ogni volta che emerge una patologia, un difetto, una qualsiasi imperfezione.

Lo chiamano aborto terapeutico ma non si capisce qual è la terapia e chi ne usufruisce. Sappiamo solo che un bambino viene soppresso. La legge ovviamente non può concedere il permesso di uccidere un bambino solo perché è malato. Ecco allora l’escamotage: occorre proteggere la madre da eventuali patologie di natura psichica. Per chi non lo sapesse è questo l’iter procedurale: quando le indagini diagnostiche rivelano l’eventuale (presunta) malformazione, interviene lo psichiatra che attesta l’incapacità della donna di accettare la gravidanza. Tutto questo a norma di legge.

È vero che la legge 194  ammette la possibilità di ricorrere all’aborto quando siamo di fronte a gravi problemi psichici. Ed è un grave cedimento alla cultura eugenetica. Ma chi segue con attenzione (e ap-prensione) questa problematica sa che le maglie si sono progressivamente allargate. Oggi non deve ne-cessariamente apparire una grave malformazione per incutere paura e porre la donna dinanzi ad un bivio da far tremare il cuore, oggi anche una semplice imperfezione del tutto curabile diviene un macigno che cala sulla madre come una clave e la induce all’aborto.

Non importa se spesso e volentieri di imperfetto c’è solo la diagnosi medica. Come appunto nel caso di Careggi. Questa vicenda ha avuto l’onore della cronaca perché il bambino è nato vivo ed è stato possibile appurare che la valutazione medica era del tutto sbagliata. Poveri genitori che si sono fidati dei medici, pensando che con tutti gli arnesi tecnologici di cui oggi dispongono non potevano sbagliarsi. Quanti altri bambini vengono soppressi a causa di un’errata diagnosi? Non lo sapremo mai. Conosciamo invece quelli che sono nati nonostante la previsione di patologie più o meno gravi, rivelatesi poi inesistenti, grazie al coraggio e all’amore di genitori che volevano semplicemente un figlio. Non un figlio perfetto.

Quello che è accaduto a Careggi, nei pressi di Firenze, poteva aprire una riflessione, quella morte pote-va servire almeno a mettere in discussione uno dei dogmi culturali più crudeli di questa nostra epoca. Niente di tutto questo. La notizia non poteva essere ignorata. Ma è stata subito soffocata. Il caso si è sgonfiato in pochi giorni. Qui non siamo infatti dinanzi ad uno dei tanti casi di malasanità, che spesso vengono cavalcati dalla stampa per fare audience. Questo è un esempio di mala-legislazione. E nessuno, a quanto pare, è disposto a mettere in discussione questa legge che in quasi trent’anni ha permesso la soppressione di 5 milioni di piccole creature. E tutto questo non solo con la compiacenza ma anche con i soldi dello Stato, come se l’aborto fosse un dovere sociale al quale le istituzioni pubbliche non possono sottrarsi.

Qualcosa non va in questa legge. Quando è stata elaborata sembrava un valido compromesso tra la cul-tura libertaria – che voleva l’aborto sempre e comunque – e quello solidale che presentava l’aborto come un’extrema ratio e voleva difendere la donna dal ricorso a pratiche che mettevano a rischio la sua salute. Concediamo la buona fede. Ma perché poi la legge è rimasta sostanzialmente inapplicata nella parte in cui si afferma che occorre far di tutto per rimuovere le cause che inducono all’aborto? E perché, l’aborto terapeutico, grazie anche alla solerzia dei medici, è diventato una via larga percorsa da tante coppie angosciate dall’idea di avere un figlio malato?

Certo, il problema oggi è innanzitutto culturale. Parliamo tanto di integrazione dei disabili, applaudiamo ogni iniziativa che va in questa direzione. Ma nello stesso tempo viene meno quella cultura dell’accoglienza che per secoli ha retto l’umana società, si sgretola il tessuto di solidarietà che permetteva di riconoscere il valore della vita a prescindere dalle sue condizioni esistenziali. In tutto questo la legge 194 è solo uno strumento neutrale oppure contribuisce a creare una cultura che non riconosce più il valore assoluto della vita? Se la politica fosse meno miope, questo interrogativo potrebbe innescare un confronto, sollecitare una riflessione, aprire strade di vera solidarietà con chi sperimenta la difficoltà ad accogliere una nuova vita. Probabilmente non si arriverà alla soppressione della legge ma se riu-scissimo anche solo a modificare sensibilmente la sua attuazione sarebbe già un piccolo passo in avanti. E non è poco di questi tempi.




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