Quello che ci mancava
di Luciano Gambardella
Ursula e Claudio, una coppia di sposi con tre bambini piccoli. A dicembre scorso sono ritornati in Italia dopo sei anni di missione in Mozambico.
Lasciare molto per trovare molto di più. E’ questo il senso della scelta di Ursula e Claudio, una coppia con tre bambini che nel novembre del 2000 ha scelto di partire per il Mozambico. Perché sono partiti? Cosa li ha spinti ad abbandonare un lavoro remunerato e stabile, Claudio in banca e Ursula nell’amministrazione di una azienda? Scelta difficile per i più, forse incomprensibile, ma non unica. In tutto il mondo sono più di 400 le famiglie che ogni anno partono in missione. Da vari angoli del mondo, diversi per clima, costumi, situazione politica, ma accomunati da un aspetto che rappresenta anche la ragione del viaggio: vi è gente che ha bisogno di una testimonianza, di persone capaci di condividere.
Ursula e Claudio, durante il loro fidanzamento, avevano solo una vaga idea di cosa volesse significare realmente vivere la missio ad gentes. Un cammino lungo e sincero li ha portati a scoprire quale fosse il disegno del Signore per la loro vita.
“Io e Claudio ci sentivamo soddisfatti per gli obiettivi lavorativi e sociali che avevamo raggiunto: entrambi avevamo un ottimo lavoro, una vasta cerchia di amici coronava la nostra vita quotidiana e tanti hobbies riempivano il tempo libero. Questa vita rappresentava la realizzazione dei nostri sogni da studenti ma qualcosa, un inspiegabile senso di tristezza, faceva di tanto in tanto capolino. Quella sensazione rappresentava l’inizio del nostro piccolo dramma perché, come poi ci siamo confidati l’un l’altro in una fresca serata di inizio primavera, eravamo molto infelici. Quella sera stessa, passammo in rassegna tutti quei momenti in cui avevamo percepito un senso pieno di felicità ed erano le volte in cui avevamo aiutato gli altri. Non la laurea, il gioco del bridge, il lavoro, la vita sociale ci avevano fatto comprendere dove fosse la felicità, ma le semplici cose che avevamo fatto per qualcuno. Chiesi a Claudio che cosa avrebbe desiderato fare e lui mi rispose dicendo che avrebbe lasciato tutto e sarebbe partito in missione. Quello era il mio stesso sogno”.
Da quel giorno Claudia e Ursula iniziarono un pellegrinaggio presso le diverse ONG e Associazioni che si occupano di cooperazione internazionale; dopo molti e vani tentativi, hanno cercato anche all’interno dell’ambito ecclesiale. “Ci siamo rivolti al Centro Diocesano per la Cooperazione Missionaria e lì, grazie alla Provvidenza, siamo stati ascoltati e ci hanno consigliato di andare a Piombino presso il Centro Fraternità Missionarie”.
E lì cosa è successo?
Innanzitutto ci sono stati chiariti due equivoci:1) missione non vuol dire aiutare qualcuno ma partire perannunciare il Vangelo; 2) che noi non eravamo cristiani, nel senso che pur essendo battezzati e andando a messa, del Vangelo non conoscevamo niente. Ci hanno spiegato che il Vangelo parla dell’amore e che l’amore lo si scopre solo donandosi.
Tutto ciò, ci ha permesso di guardarci allo specchio e capire realmente chi eravamo: abbiamo accantonato il desiderio di partire e abbiamo deciso di approfondire la ricchezza della Buona Novella perché altrimenti anche in missione avremmo portato solo la nostra vita senza senso. Cosa avremmo mai donato se non possedevamo niente? Siamo rimasti lì a Piombino e abbiamo iniziato a conoscere il Vangelo. In questo periodo, abbiamo deciso di sposarci. Era il settembre del 1997.
Da famiglia come avete vissuto il vangelo?
“Provavamo a vivere e annunciare il Vangelo già ad Ascoli, facendo un consumo critico dei beni, impegnandoci in Parrocchia, al Centro Missionario Diocesano, visitando i malati terminali, condividendo il nostro stipendio con i poveri. In questo modo la nostra vita aveva già acquisito un senso, uno stile”. Aggiunge Claudio: “col passare degli anni, però, ci siamo resi conto che il desiderio di partire era rimasto dentro di noi ed sentivamo che era giunto il tempo di dover donare gratuitamente, quanto gratuitamente avevamo ricevuto. E’ stato così che, alla fine del ’99, dopo la nascita della nostra primogenita, Chiara, abbiamo deciso di partire”.
E le vostre famiglie come hanno reagito a questa decisione?
“È stato molto difficile comunicare ai nostri genitori questa scelta così radicale. La cosa che più ci faceva soffrire, non era il fatto che essi potessero non condividerla ma, il fatto che essi non ci reputavano in grado di compiere una scelta del genere.
Noi, però, avevamo scelto!
Prima abbiamo vissuto un periodo di formazione a Piombino e a Verona presso il CUM, un centro per la formazione dei missionari; poi partimmo per il Portogallo, per imparare la lingua ufficiale del Mozambico. Finalmente nel novembre del 2000 con il mandato del nostro Vescovo di Ascoli, siamo partiti”.
Perché il Mozambico e in cosa consiste lo stile dell’Associazione?
“Noi siamo andati in Mozambico perché l’Associazione di Piombino ha uno stile che prevede la compresenza di laici e sacerdoti. In Mozambico c’erano già due sacerdoti che insieme a una famiglia formavano una comunità. Ora, nel nostro stile, è previsto che si possa aggregare un’altra famiglia per fare Fraternità. La famiglia che si trovava lì l’avevamo già conosciuta perché avevamo ascoltato la loro testimonianza a Piombino. Prima di quella testimonianza noi eravamo convinti che il Vangelo potesse essere vissuto radicalmente o dai preti o dalle suore, invece quella famiglia ci fece comprendere che la santità è anche per la famiglia”.
Qual’era il vostro compito?
“In Mozambico vivevamo a pochi chilometri dalla capitale Maputo, in una zona rurale, con una popolazione dedita prevalentemente all’agricoltura e con una fascia media di età praticamente assente perché quasi tutti erano emigrati.
Ognuno della Fraternità aveva la propria casa con momenti di preghiera e di pranzo in comune. Importanti erano gli incontri di organizzazione della pastorale parrocchiale. La parrocchia, infatti, era stata affidata dal vescovo a tutta la Fraternità: sacerdoti e coppie. Avevamo la cassa comune. Abbiamo imparato l’idioma locale per poter compiere un’integrazione più efficace, affinché il nostro ruolo non fosse soltanto di tipo assistenziale ma soprattutto, in un Paese dove soltanto il 30 % della popolazione è cristiana, di diffusione del Vangelo con un’attività pastorale capillare.. Per integrarci e condividere il nostro essere famiglia con la popolazione locale, adottammo uno stile di vita sobrio, cercando il più possibile di vivere come e con loro, rinunciando alla luce, al telefono e ad avere l’acqua in casa”.
Queste piccole comunità sono composte da una quindicina di famiglie. In questa situazione ci siamo inseriti facendo la formazione di tutti i catechisti e gli animatori della parrocchia. Noi avevamo un modo di leggere il Vangelo che aiutasse soprattutto gli analfabeti e, come comunità, a prendere scelte importanti. Abbiamo, inoltre, portato avanti un programma sociale che aiuta a incentivare una soluzione interna alle singole comunità senza dover per forza ricorrere al sussidio esterno.
Per la maggior parte delle famiglie che vivono la propria vocazione nell’ordinarietà, la vostra scelta assume i contorni dell’eroicità. Vi sentite degli eroi?
La nostra è stata un’esperienza semplice, di famiglia che vive in mezzo ad altre famiglie cristiane per condividere la fede. E’ stata una testimonianza di famiglia che in Mozambico era assente: un paese dove l’adulterio è prassi,la nostra fedeltà è stata un segno; ai figli che vengono affidati ai nonni, noi rispondevamo con il tenere i figli con noi. Alla fine ci siamo detti che se anche non avessimo detto o fatto niente, la nostra stessa presenza avrebbe significato qualcosa.
Cosa avete ricevuto in cambio?
Noi sottolineiamo molto la relazione umana intessuta con le altre famiglie che ci ha fatto percepire il compimento della promessa di Gesù ai discepoli che rassicura quanti abbandonano tutto per il Vangelo perché riceveranno il centuplo già in terra. La nostra è una scelta tra le altre ma fatta per il Vangelo.
Tanti doni abbiamo portato con noi in questo ritorno in Italia: la consapevolezza che è solo una questione di fortuna o sfortuna, dipende dai punti di vista, nascere in Italia oppure in Mozambico; il rendersi ancora più conto che le scelte dei paesi occidentali hanno delle ricadute anche lì.
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