Nascere? Un lusso per pochi

di Giuseppe Anzani

La preoccupante denatalità viene troppo sbrigativamente attribuita a fattori di tipo economico. In verità il problema è più grave di quello che si pensa: ci troviamo di fronte ad un’umanità che non sa più amare, che non sa più accogliere il mistero della vita.

Nessuna riflessione sul rapporto tra la famiglia e la vita eguaglia l’emozione che si prova nei momenti di autocoscienza profonda, quando l’uomo si immerge in sé stesso fino a percepire la straordinaria unicità del suo essere “io”, e ad avvertire immediatamente dopo che quell’io è un essere ricevuto. Un dono.

Essere è “essere figli”, in modo ontologico. Questo segna la mia identità non meno che la mia origine biologica, il senso dell’esistenza per me non meno che per quelli che mi hanno chiamato alla vita. Da loro ho preso insieme il nome e il nido, dalla loro accoglienza d’amore ho preso nutrimento e crescita, ho imparato la vita, ho imparato a parlare e ad amare. Da loro sono stato introdotto nel villaggio umano, che ora è anche mio; anzi il villaggio umano è costruito proprio da noi, da ciò che noi siamo nella nostra naturalezza di “famiglia”, e dalla moltitudine di famiglie che come noi rispondono con naturalezza a questo prodigioso richiamo della vita donata.

E’ questo, in fondo, il respiro della storia umana, il disegnarsi della novità della vita che convoca e prenota il futuro, oltre la frontiera della morte che accomuna il destino dei vivi.  Ogni volta il vecchio albero della vita riprende freschezza dai suoi germogli, si rigenera nella novità del suo continuo rinascere. Non per nulla nella psicologia dell’adulto, e più ancora nel vecchio provato da mille delusioni, l’immagine del bambino risveglia l’antico incantesimo, l’emozione di stupore ontologico di fronte alla bellezza della vita e del mondo. “Ogni volta che nasce un bambino – ha scritto il poeta indiano Tagore – vuol dire che Dio non si è ancora stancato degli uomini”.

In Italia, da qualche decennio, le nascite sono in calo, si potrebbe dire in crollo, e nell’ultimo periodo segnano un livello di minimo recupero che stabilizza un coefficiente pari a 1,35 per donna (Istat 2006), molto sotto la soglia della “crescita zero” collocata a 2,1.  Tre anni fa, in occasione della giornata della Donna, il presidente della repubblica Ciampi scrisse nel suo messaggio che “le culle vuote sono il primo e vero problema della società italiana”. Lo sono, un po’ meno che da noi, anche per la vecchia Europa, per la parte del mondo invecchiato che prolunga la china degli anni, ma vede più sterile la sua fonte, la sua aurora.

Sulle cause della denatalità ci sembra a volte di sapere quasi tutto, perché gli studiosi ci hanno detto di tutto e di più: mutamenti del costume sociale, dell’economia, della famiglia, del lavoro, e poi anche della psicologia individuale e collettiva, della strutturazione del tempo, dell’investimento della vita. Vero tutto, eppure ancora insufficiente a capire nel profondo il “perché” di questo isterilimento, di questa specie di sahel della vita, che pur influenzato dai fenomeni descritti è pur sempre il frutto di decisioni umane.

E’ necessario chiederci  in quale misura le scelte e le decisioni umane che reputiamo libere siano influenzate dal pensiero dominante di una società che struttura la vita e il suo senso sulla produzione, la carriera, la competitività, l’opportunismo individuale; dobbiamo capire quale ferita ne abbia sofferto, sul piano del pensiero e dell’essere, la polarità di “maschio e femmina” delle creature umane, il genio rispettivo della reciproca complementarietà. Capire quale incredibile povertà del mondo umano sia stata prodotta,  si direbbe per sventurata entropia, oltre che dall’evanescenza dell’immagine paterna, dall’indebolimento della componente “materna” che è l’anima della civiltà umana. Il segno del grembo, l’accoglienza, lo spazio e la cura,  la misericordia e la gioia, l’alleanza mai ritrattata.

In una società che mette tutti in corsa a spartirsi o contendersi le mete individuali, compare l’immagine sottintesa che un bambino è una fatica, un intralcio, un peso, un limite, un costo. Non ti prende solo la fatica fisica, ti prende il pensiero. E’ una spugna che ti assorbe la vita, ti sposta gli equilibri.  Chi ha tempo per questo, mentre la vita incalza? E’ sorprendente che nelle ricerche demoscopiche, alla domanda “perché senza figli” la risposta statisticamente più alta sia quella “per mancanza di tempo”. Il figlio è ciò che ti ruba il tempo.   Nei Paesi anglosassoni è comparsa la sigla della coppia “DINK”, cioè “dual income no kids” (due redditi, nessun figlio); si è coniato persino il neologismo “childfree”, cioè non la mancanza di figli, ma la scelta di non volerli, di restarne “liberi”.




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