Matrimonio alla deriva
intervista a cura di Giuseppe Galasso
La proposta Bindy-Pollastrini è la risposta ad una esigenza politica in ragione del fatto che nel programma di questa maggioranza si fa esplicito riferimento alla realizzazione di un’azione di questo tipo; non c’è invece alcuna esigenza sociale, anzi vi è una irrilevanza, dato che solo il 4% delle coppie italiane convive a fronte del 96% delle coppie che meritano di essere garantite da una autentica politica per le famiglie.
Ne abbiamo parlato con il prof. D’Agostino.
Professore, si può parlare di una esigenza giuridica?
Giuridicamente non c’è alcun problema di convivenza che non possa essere risolto con quello che i giuristi chiamano il diritto volontario cioè con degli accordi di diritto privato fra gli stessi conviventi. Quello che, invece, i fautori dei DiCo vogliono è garantire uno Statuto non di diritto privato ma di diritto pubblico cioè creare una struttura giuridica riconosciuta dalla legge, partendo dalla quale si producono tutta una serie di effetti, per esempio l’assistenza sanitaria, la previdenza, la pensione… Questo comporta inevitabilmente dare ai DiCo, la struttura di un matrimonio, se vogliamo di serie B, ma pur sempre un’alternativa al matrimonio.
C’ è dunque un rischio di equiparazione tra unioni civili e matrimonio?
Il rischio di equiparazione non solo c’è ma lo si percepisce immediatamente solo se si pensa che nel momento in cui venissero approvati i DiCo, ogni nuova coppia sicuramente si troverebbe nell’alternativa di scegliere di sposarsi o contrarre un DiCo. Siccome non possono contrarre i DiCo quelli che sono già sposati, è chiaro che l’alternativa è reale, si aprirebbe un opzione tra il matrimonio e una forma di paramatrimonio.
Professore ma in realtà qual è la questione che si cela dietro alla richiesta di riconoscimento delle convivenze?
La questione è antropologica. Tutte le culture seppur in forme diverse hanno elaborato il matrimonio come l’unica struttura che garantisce l’ordine delle generazioni, cioè che garantisce la cura e l’allevamento dei figli. Ed è per questo che il matrimonio è riconosciuto in tutte le epoche e in tutte le culture. Se io mi sposo in Italia e mi trasferisco in Giappone sono riconosciuto come coniugato, anche se ho contratto il matrimonio secondo il diritto italiano, perché la struttura del matrimonio va al di là delle singole modalità giuridiche con cui viene svolto. Il riconoscimento legale delle convivenze, invece, mette tra parentesi la logica generazionale del matrimonio e sottolinea in maniera esasperata il fatto che il mero convivere comporti particolari tutele pubbliche nei confronti dei conviventi. Questo non trova, a mio avviso, giustificazione sociale, né dà ragione del perché la società debba mettere a disposizione risorse sociali per i conviventi in quanto tali. Mentre tradizionalmente è ragionevole che la società metta a disposizione risorse speciali per la famiglia fondata sul matrimonio, proprio per la funzione sociale e generativa del matrimonio di cui abbiamo parlato prima. Quindi viene da sospettare che il riconoscimento delle convivenze sia un fattore culturale di cui dobbiamo ancora studiare la portata, che si ricollega, a mio avviso, al declino demografico delle società Occidentali e a una definita rimozione dei doveri verso le generazioni future. Contrastare i DiCo significa, nel limite del possibile, confermare la vocazione strutturale e coniugale della generatività.
La questione antropologica è il motivo per cui opporsi ai DiCo in quanto apristrada per il riconoscimento delle unioni omosessuali?
Naturalmente quello è un tema strettamente connesso al precedente e non c’è dubbio che esplicitamente gli omosessuali fanno questo discorso. Ma non è che il rapporto tra gli omosessuali è temibile in quanto tale.
Semplicemente bisognerebbe spiegare, cosa che in genere non viene fatta, perché il riconoscimento di una coppia omosessuale dovrebbe avere valore giuridico e pubblico. Qual è l’interesse pubblico a riconoscere una convivenza omosessuale, che è una convivenza sterile per sua natura?
In quanto firmatario del manifesto Più famiglia che cosa si attende dal Family Day il prossimo 12 maggio?
Io credo che l’opinione pubblica italiana di oggi sia fortemente radicata sui valori della famiglia e che questi valori non trovino adeguata rappresentanza politica in Parlamento. Quindi, mi auguro che la manifestazione se avrà successo possa aprire gli occhi a molti politici e indurli a fare il loro dovere. Il dovere dei rappresentati del popolo è quello di rappresentarlo nei suoi bisogni e nelle sue esigenze autentiche. Non mi sembra che in questo momento in Parlamento ci sia una maggioranza realmente consapevole dei valori familiari.
Sei lei avesse la possibilità di indicare la prima iniziativa per porre mano alle politiche familiari?
La prima ma anche l’ennesima perché in Italia le politiche familiari sono pressoché assenti. Basta che ci poniamo seriamente la domanda su quali sono le difficoltà che incontrano ordinariamente le giovani coppie: difficoltà a trovare casa, a costituire cioè un nucleo domestico autonomo rispetto a quello dei genitori, difficoltà a coordinare le reciproche attività lavorative, difficoltà a gestire i figli. In aggiunta a questo c’è il fatto che gli assegni familiari, in Italia sono diventati quasi irrilevanti dal punto di vista finanziario.
Sono dunque molte le iniziative che si potrebbe e dovrebbero attivare.
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