Chiamati ad accogliere

di Antonietta Abete

Una storia di affido familiare.

L’Affido Familiare è una delle possibili soluzioni al disagio minorile in quanto il benessere di un bambino, di  un ragazzo che vive situazioni di difficoltà deve passare prima di tutto dal tentativo di ricostruire quelle relazioni primarie di fiducia, accoglienza e appartenenza, che una famiglia assicura pienamente.

Il vero punto di forza di una famiglia che si apre all’accoglienza è proprio l’essere e riconoscersi “famiglia comunità naturale”  aperta alla vita. Spesso questa vocazione naturale è soffocata dalla sempre più incalzante precarietà della famiglia odierna ingabbiata da modelli e strutture  deresponsabilizzanti  che diventano dei veri e propri punti di debolezza   che limitano e spesso impediscono ogni  seme di apertura e di condivisione.

“Perchè i miei figli hanno tutto mentre quei bambini sono soli?”

La storia di Luisa e Davide, cresciuti come famiglia nell’arte di amarsi ed amare grazie a diverse esperienze di affido familiare.

Da quando abbiamo conosciuto l’Ideale del Movimento dei Focolari, venti anni or sono, tanti aspetti della nostra vita sono cambiati. C’era tanta voglia di corrispondere all’Amore di Dio che avevamo scoperto come Padre. Diventammo un po’ alla volta sensibili alle esigenze dei meno fortunati, ma anche di chi ci stava intorno; l’impressione era che più ci sforzavamo di amare, più cresceva in noi la capacità di donazione.

Un giorno lessi con interesse un articolo su “Città Nuova” che riguardava l’accoglienza, con esperienze varie, ma ciò che mi colpì maggiormente fu il racconto del sindaco di un paesino della provincia di Torino. Aveva deciso di trascorrere, in occasione del Natale, una giornata in un istituto di accoglienza per minori. Al momento del pranzo, decise di legare il bavaglino al bambino sedutogli accanto. Vedendo questo gesto, tutti gli altri bambini si misero in fila per farselo legare. Questo episodio mi commosse profondamente.

Chiamati in causa

Io e Davide avevamo due bambini, Alberto di tre anni e Maria Rosaria di un anno e mezzo, ed eravamo felicissimi. Li crescevo con amore e dedizione. Dopo aver letto quell’articolo, mi chiesi perché i miei figli avevano tutto mentre quei bambini erano soli. Mi sono sentita chiamata in causa. Subito pensai che non era giusto che alcuni bambini fossero privi dell’affetto di una famiglia. L’accoglienza temporanea mi sembrava la soluzione ideale e mi sentii interpellata in prima persona. Quando Davide tornò dal lavoro lo feci partecipe delle mie riflessioni e la sua perplessità non mi scoraggiò. Così, in un momento di grande intimità spirituale tra di noi, decidemmo che era troppo presto, eravamo sposati da tre anni e avevamo già due bambini, ma ci demmo una scadenza: dopo tre anni ne avremmo riparlato.

Straordinariamente, allo scadere del sesto anno di matrimonio – avevamo ancora le rose sul tavolo per la ricorrenza – senza che avessimo fatto niente, arrivò la prima bambina in affido. Fu chiaro, in quel momento, che Dio aveva preso sul serio i nostri buoni propositi ed ora ci aiutava ad attuarli.

Una sera, passai a salutare il mio parroco ed egli mi raccontò di una telefonata ricevuta da un’ assistente sociale che gli chiedeva di cercare una famiglia disposta ad accogliere una ragazza madre, rifiutata dalla famiglia. A dire il vero, era rifiutata solo la bambina perché frutto del peccato. Io e Davide ci rendemmo immediatamente disponibili. Quello che è successo dopo non è fino in fondo descrivibile. Ci sentimmo forti e coraggiosi per affrontare tutto e la gioia ci pervadeva.

L’unità tra noi e i nostri figli era palpabile e ne usufruivano parenti e amici che volentieri venivano a trovarci per proporci il loro aiuto. Oramai, una catena d’amore si era attivata contagiando tutti, anche i nonni. Aprimmo la nostra casa alle visite quotidiane del fratello della ragazza, che era molto dispiaciuto dell’atteggiamento dei suoi genitori. Coltivava il suo rapporto con la nipotina con tanto amore, fino a sentirsene responsabile, una rarità per un giovane ventenne. Un giorno mi propose di far venire suo fratello maggiore, già sposato, per fargli conoscere la nipotina. Ci preparammo a quell’incontro con grande intensità, porgemmo loro la bambina senza riserve e loro ci riconobbero come relatori del corso prematrimoniale che avevano svolto l’anno prima. Potemmo quindi parlare con confidenza e insieme decidemmo di fare una proposta più decisa al nonno ostinato. Così fu e la piccola potette ritornare, tra le braccia della mamma, insieme ai nonni che l’hanno coccolata facendola crescere in un clima sereno.

Una verifica della capacità di amare

L’anno successivo, poiché i servizi sociali ormai ci conoscevano, ci chiamarono per il caso di una ragazza madre, aveva bisogno di trovare una sistemazione lavorativa e un alloggio, così nel frattempo crescemmo noi il bambino per quattro mesi. Una volta stabilizzatasi, prese con sé il bambino. Anche questa volta, quotidianamente, la mamma veniva a casa, ma quando nutriva lei il bambino vomitava, cosa che non avveniva con noi. Questa esperienza, insieme a degli altri controlli medici che affrontammo in ospedale e al fatto che il bambino non dormiva di notte, ci fecero misurare più in profondità la nostra capacità di donazione, ma scorgemmo soprattutto la volontà di amarci tra noi scambievolmente. Infatti, erano atti d’amore continui. Uno ne ricordo in particolare. Ero sul divano a dondolare il carrozzino, ma fui sopraffatta dal sonno, perchè non si dormiva di notte. Mia figlia Maria Rosaria di quasi quattro anni, lentamente prese il carrozzino, lo portò in camera sua e lo dondolò per più di un’ora, per permettermi di riposare.

Il rapporto con la famiglia di origine

Dopo, desiderammo un figlio nostro. Sembrava non potesse arrivare e invece dopo otto mesi fummo benedetti e rimasi incinta di Domenico. Una gioia tutta nuova ci investì, diversa dalle altre gravidanze per la consapevolezza della grandezza del dono ricevuto. In seguito, venimmo a conoscenza della storia di una ragazzina di dodici anni, avviata alla prostituzione dalla mamma. Ci mettemmo a disposizione per un aiuto. Sembrava avesse bisogno di un paio di occhiali, ma in realtà le esigenze erano altre. Ci mettemmo in contatto col servizio sociale di appartenenza e la ospitammo per i fine settimana e durante le vacanze scolastiche. Negli altri giorni era presso una casa famiglia che le permetteva di studiare. Noi avevamo il compito di trasmetterle il senso della famiglia sana e “normale”. Era proprio un pulcino bagnato, non conosceva niente che fosse diverso dal tingersi i capelli e vestirsi in maniera strana. I nostri figli, ormai grandicelli, si impegnarono ad insegnarle a leggere l’orologio, il calendario, a fare i conti…Ci volle un po’ per cominciare a vedere i risultati, ma quando arrivarono, ce ne accorgemmo. Un giorno, al ritorno dalla spesa, lei mi mostrò un dolce che aveva fatto tutta da sola. Sbalordita mi resi conto che quello poteva dirsi il momento dell’effettivo riscatto. Era cresciuta e sapeva prendere iniziative. Inutile dire quanto grande fu la mia commozione.  L’abbiamo seguita fino a che l’ho cresimata e ha raggiunto la maggiore età. Non sappiamo se in seguito faremo ancora esperienza di affido, come sempre preferiamo non fare programmi e lasciarli fare a Chi  ha in mano la vita di ciascuno.




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