Sospeso a un sottile filo

di Anna Pisacane

Eutanasia infantile e aborto tardivo: le nostre domande su due modi di stroncare la vita apparentemente diversi.

La vita dell’uomo è un bene. Un bene di cui si può disporre a nostro piacimento. Questa è la cultura che regna incontrastata.

Aborto, eugenia, infanticidio, eutanasia, omicidio, sono diversi termini che annunciano una realtà sconcertante dove la vita viene tragicamente stroncata.

Ma l’uccisione deliberata di una persona umana acquista un valore morale, oltre che giuridico, più tragico quando questa si impone alla nostra capacità percettiva come qualcosa di evidentemente umano. E’ il caso, ad esempio, dell’eutanasia, ma quando parliamo di eutanasia spesso pensiamo ad un corpo adulto che si sta consumando o per una malattia o per invecchiamento, ma mai di bambini.

In realtà, l’eutanasia infantile è una pratica attualmente illegale in qualsiasi Stato del mondo, ovvero legalmente corrisponderebbe al reato di infanticidio. Essa costituirebbe in un atto mirato a procurare attivamente la morte a soggetti umani al di sotto di dodici anni di età, primariamente neonati.

Recentemente però è sorto un dibattito in Olanda, primo paese al mondo dove è stata legalizzata pienamente l’eutanasia, sulla questione: è legittimo determinare la morte di neonati che si trovano in determinate condizioni, affetti da malattie cosidette incurabili o da malformazioni?

Noi ci chiediamo: c’è qualche differenza tra un aborto tardivo e l’eutanasia infantile?  In Italia la legge sull’aborto (194/78) prevede l’interruzione della vita del feto entro le prime 12 settimane. Ma in alcuni casi (il 2,6 % rispetto al totale degli aborti nell’anno 2005, naturalmente parliamo solo di quelli registrati) essa prevede l’aborto anche dopo i novanta giorni dal concepimento, qualora vengono “rilevati anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”(art. 6).

Qui l’aborto, data la dimensione corporea del feto, si pratica attraverso il metodo dell’ “Induzione del travaglio e parto prematuro”. E’ un parto a tutti gli effetti provocato farmacologicamente con prostaglandine al fine di provocare l’espulsione del feto. Sebbene la legge impone di rianimare il feto nato “purtroppo” vivo, sono pochi i casi in cui questo avviene. E qui sorge il dilemma: sono pochi i bambini nati vivi dall’aborto tardivo o non viene applicata la legge vigente? Il farmaco usato per espellere il feto non è letale (serve soltanto a stimolare il parto).Quindi il feto che alla nascita è ancora vivo viene lasciato morire negandogli qualsiasi cura? Più che una domanda sembra una dura insinuazione ma la ragione ci porta soltanto in questa direzione.

E’ una realtà molto diffusa ma poco nota per chi non la vive direttamente. Nei nostri reparti ospedalieri uno stesso bambino può venire alla luce per vivere ma anche per morire. Dipende. Il suo destino lo decidiamo noi. Lo scorso 24 ottobre a Miami, è nata Amillia dopo appena ventuno settimane di gestazione, pesava solo 280 grammi, praticamente come due bicchieri d’acqua ed era lunga poco più di una penna. E’ stato difficile catalogare la sua venuta al mondo come una nascita, invece che un aborto spontaneo.

Ma mentre i medici non le davano più di qualche ora di vita, i genitori non si sono abbattuti, e l’hanno chiamataAmillia, che in spagnolo vuole dire “instancabile” e “resistente”. E lei ha sorpreso tutti con la sua voglia di vivere. Dopo quattro mesi d’incubatrice nel modernissimo reparto di cura intensiva neonatale della Baptist Children’s Hospital di Miami, monitorata 24 ore su 24, ha raggiunto il chilo e 800 grammi, ed è in condizione di lasciare l’ospedale.

E’ qui il paradosso diventa ancora più palpabile, estremamente evidente. Uno stesso bambino al quinto mese di gravidanza può essere un aborto o un bambino nato prematuramente. Tutto dipende da come lo si concepisce ed accoglie.




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