La fragilità nelle mani dell’uomo
di Marina Casini
Dignità umana e diritto alla vita: una riflessione sulla scia del XXVI Convegno dei Centri di aiuto alla vita.
Il tema di questo contributo nasce sulla scia del XXVI Convegno dei Centri e Servizi di aiuto alla vita, svoltosi a Bari dal 22 al 25 novembre 2006 sul tema: “La vita umana: fragilità nelle mani dell’uomo”, organizzato dal Movimento per la vita italiano. La fragilità è inevitabile esperienza di ogni uomo: malattie, disabilità, vecchiaia, ferite del corpo, del cuore e della mente, debolezza morale, angoscia, paura. Qual è il momento in cui la fragilità è massima e della vita umana costituisce il sigillo? E’ il momento silenzioso dell’inizio: irriconoscibile come uomo nelle forme e i movimenti; senza una traccia di storia, di memoria, di relazioni vissute; totalmente dipendente dagli altri; debolissimo e poverissimo, l’essere umano inizia così la sua avventura esistenziale. Rispetto ad altre fragilità, quella dell’inizio è diversa dalle altre non solo perché maggiore in senso “quantitativo”, ma anche in senso “qualitativo”. A differenza di altre fragilità per le quali – giustamente – si tenta di rinforzare la tutela e i diritti (per es. disoccupati, immigrati, bambini del terzo mondo minacciati dalla fame, esseri umani vittime di sfruttamenti, di guerre, di terrorismo…) per gli esseri umani nella fase più giovane dell’ esistenza, si afferma che la loro morte è un elemento di progresso civile che la legge deve garantire in nome di pretesi diritti individuali. All’origine di queste istanze vi è l’idea che la fragilità umana che caratterizza emblematicamente la vita che inizia non ha “valore” o ha un “valore inferiore”. La stessa idea con riferimento alla fragilità della vita colpita dalla malattia o dalla disabilità, è all’origine di istanze volte a legittimare l’eutanasia o il cosiddetto “testamento biologico” avente contenuto eutanasico.
Il valore dell’uguaglianza
Eppure, nel cuore della modernità la forza del pensiero ha saputo indicare la “bussola” per orientare il comportamento nei confronti dell’essere umano in quanto tale, a prescindere da qualsiasi condizione e situazione: “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della dignità, della giustizia e della pace nel mondo.” Con queste parole si apre la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948). Affermare che il fondamento della libertà della giustizia e della pace consiste nel riconoscimento della dignità di ogni essere umano e porre (come fanno tutti i successivi atti internazionali sui diritti dell’uomo e molte delle successive Costituzioni nazionali) al centro degli assetti giuridici la dignità umana da tutelare e promuovere, significa rifiutare in modo definitivo la tesi che il valore dell’essere umano sia in funzione di un fine a lui esterno.
La dignità: essa è postulata come “garanzia” per evitare la violenza, la paura, la sopraffazione, sperata come intima e nobile essenza dell’esistenza umana e, dunque, come ragione dell’uguaglianza tra tutti gli uomini. Essa esprime, dunque, l’idea del valore finalistico dell’uomo, è dichiarata “inerente” all’essere umano, ed è pensata come uguale: è qualcosa di così elevato che non consente graduazioni e comparazioni. Non ci può essere un “più” di dignità o un “meno”, perché essa è sempre la massima. Per questo, la dignità nel suo nucleo essenziale è sinonimo di diritto alla vita e di persona: il diritto alla vita è la prima espressione della dignità umana e ogni essere umano è sempre persona, in quanto portatore di una uguale dignità. Se così non fosse ci sarebbero alcune vite “più degne” di vivere ed altre “meno degne” di vivere, con l’inaccettabile discriminazione che ne deriverebbe.
Il valore della reciprocità
Il riconoscimento dell’uguale dignità si concretizza nella reciprocità e tale reciprocità è il presupposto originario e fondativo della solidarietà umana: se il singolo smarrisce il senso della sua dignità, di essa sono chiamati a farsi “custodi” gli altri.
“Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza”, ha detto ad un Convegno un medico palliativista; ebbene questo “sguardo pieno di tenerezza” è la garanzia che nessun legame è spezzato, nonostante la malattia, la disabilità, la vecchiaia, la prossimità alla morte. Oggi, il principio di non discriminazione in nome dell’uguale dignità di ogni essere umano deve essere riconosciuto nell’ambito delle diverse età e condizioni di una medesima esistenza umana con riferimento alle fasi apparentemente marginali: quella della vita incipiente, sofferente e morente. Dal principio di uguaglianza nella dignità scaturisce quello di solidarietà e questa suppone una attenzione privilegiata al debole.
Il tempo che stiamo vivendo chiede di mettere in relazione la moderna idea dei diritti umani con la vita che inizia, con la vita sfigurata dalla malattia o dalla disabilità, con la vita che muore: come si atteggiano su queste frontiere i diritti umani?
Orizzonte materialista
Il permanere di un orizzonte materialista rende insicuro il contenuto della dignità, la priva di quel sapore misterioso e fondativo da cui scaturisce l’uguaglianza; distrugge il collegamento tra dignità ed uguaglianza; non valuta il senso della “inerenza” della dignità all’essere umano come tale. La dignità non è più l’intrinseco carattere dell’essere umano in quanto tale, ma il valore dell’uomo rapportato alla presenza di certe caratteristiche, funzioni o qualità che, se mancanti rendono “meno degna” o “non più” degna la vita. L’orizzonte materialistico è sinonimo di quella “cultura della morte” di cui parla Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae. La sua radice nasce dall’insostenibile dolore del sepolcro, cioè dall’incapacità di aprirsi ad una trascendenza, di andare oltre la materia visibile, tangibile, sperimentabile, quantificabile. Se dopo la pietra tombale non c’è che il nulla, allora il senso del vivere è solo il piacere e il possesso delle cose come strumento per il piacere e l’uomo è un pezzo di materia, una particella della natura, molto ben organizzata, ma comunque materia. Nella prospettiva materialistica le relazioni umane risultano impoverite e avvilite: al criterio del rispetto della vita sempre e comunque degna di essere vissuta, si sostituisce il criterio dell’utilità, dell’efficienza, della funzionalità. In questa visione l’altro vale solo in funzione di ciò che ha, fa o rende. “Chi con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la sua stessa esistenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare”. Si scatena così una specie di congiura contro la vita. Anche il cambiamento delle definizioni è un espediente ricorrente per negare riconoscimento e valore alla vita umana. Così l’aborto è divenuto interruzione volontaria della gravidanza; la madre donna; la fecondazione artificiale, procreazione medicalmente assistita; l’eutanasia “passiva”, attraverso il testamento biologico, interruzione volontaria dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia “attiva” interruzione della vita su richiesta.
La legge del più debole
Dal principio di uguaglianza nella dignità scaturisce quello di solidarietà e questa suppone un’attenzione privilegiata al debole. E’ il tema della fragilità umana. Modernamente, in quanto finalizzato alla difesa della uguale dignità di tutti, il marchio, il timbro della giuridicità, è l’uomo fragile. Quello forte non ha bisogno della forza del diritto. E’ colui che non conta, che è incapace di affermarsi da solo nel suo uguale valore, che fa appello al diritto. La legge non è il comando del più forte, ma la forza prestata al più debole. Ecco quindi che di fronte alla tendenza a considerare la vita fragile come qualcosa di cui disfarsi, si deve sentire come propria la teoria dei diritti umani, usando le categorie del linguaggio e della ragione. Per questo la riflessione sulla vita umana nelle fasi della sua massima fragilità, si offre al nostro tempo come il terreno privilegiato del dialogo e dell’incontro, come opportunità per rinsaldare i cardini del vivere civile e di costruire legami di autentica solidarietà.
“Le forze che orientano la storia dell’uomo – scriveva La Pira – non sono tanto quelle visibili e constatabili in superficie, quanto quelle che – similmente a ciò che avviene negli abissi marini – agiscono in profondità dando direzione e finalità alla vicenda umana”. Ora, può dirsi che tra le “forze invisibili del profondo” sia presente un moto storico che rende sempre più evidente, comprensibile, esigente la dignità umana.
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